Salvatore

Mi chiamo Salvatore e faccio u pisciaiuolo. Faccio il pescivendolo, l’italiano lo so parlare, tranquilli, ma amo parlare il dialetto. E’ la mia lingua, mi fa sentire più vero.

Però a voi vi racconto di me in italiano, perché la mia storia è quella anche di altri. Ma dovrebbe essere di tanti. E’ la storia di come mi sono ripreso la vita in mano. Salvatore è un nome d’arte, non vi dico il mio vero nome perché cambia poco, perché è la storia che conta, non il titolo. E poi a me, in paese, mi hanno sempre conosciuto con il soprannome, quello di famiglia.

Quando ero piccolo, un po’ per le amicizie, un po’ per il carattere e un po’ perché non lo so. mi sono lasciato andare. Diciamo che la scuola non l’amavo, na a supportav proprio, e che mi piaceva il divertimento. Avere i soldi in tasca, togliermi gli sfizi. La sigaretta l’ho scoperta troppo presto, mi faceva uno bbuono, e quelli che erano della mia età sembrava che mi guardassero con ammirazione. Crescendo ho capito che era più sdegno o timore. O entrambi. Perché l’ammirazione ho cominciato a vederla, davvero, quando le mie mani puzzavano di pesce e fatica. Odoravano di vita ripresa, ma per arrivarci sono dovuto cadere. Capire. E anche innamorarmi.

Tra adolescenza e primi passi nella maturità ho fatto alcuni errori che ora non rifarei, troppo facile però dirlo ora. E’ successo, sono stato punito e pur mi sono morso le labbra perché non riuscivo a uscirne. Forse non volevo neanche. Forse avrei avuto bisogno di un aiuto, ma nessuno sapeva darmelo. E non parlo della mia cara famiglia, ma anche della società, di quelle che voi chiamate istituzioni. Dovevo aiutarmi per primo io, ma non ci riuscivo. E nessuno mi porgeva la mano.

Poi, finalmente, ho scoperto i miei due amori. Innanzitutto quando ho visto i suoi occhi, quando mi sono perso in lei, ho immaginato la mia vita con lei. Ma una vita diversa. E per farlo ho scoperto, anzi riscoperto, il mio lavoro. U pisciaiuolo. Parlare con la gente, i miei clienti, le signore che volevano il pesce fresco e gli amici che volevano fare una grigliata. Era il mio mondo. E avevo anche trovato dove costruirlo quel mondo, un bell’angolo bianco e azzurro. Avevo tutto per ripartire e, cari signori, l’ho fatto davvero, perché non è vero che il riscatto non è possibile. Non è vero che se uno prende una strada non può cambiarla, non è vero che bisogna essere etichettati per sempre. Cadere è rialzarsi è più difficile di chi va come un treno sin da piccolo. E allora sì, per mia moglie, per me, ho ripreso il lavoro, la mia vita. E l’ho fatto per mio figlio. E sono felice. Sono felice anche ora che non ci sono più, perché la vita sa essere bastarda. Me ne sono andato con una lacrima e un sorriso. Un pianto per lei, perché mi mancherà, un sorriso per quello che ha saputo fare di me.

Mi chiamo Salvatore u pisciaiuolo e ho saputo riprendermi la vita in mano, prima di perderla.

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Gli occhi dell’Amore

Il cielo negli occhi. Un cielo d’estate, privo di nuvole. Celeste pastello, senza sfumature. Fermo. Quasi irreale. Lei.

Occhi nocciola. Colore intenso quasi quanto lo sguardo, uno sguardo umido. Bagnato da rabbia e sofferenza. Ma soprattutto pieno d’amore senza confini. Lui.

Così intenso, l’Amore, l’ho percepito raramente.

Gli occhi nocciola cercano il proprio cielo. Lo fanno da 50 anni, dalle scuole medie, da una infanzia di infatuazione diventata poi una vita d’amore. Gli occhi celeste pastello accolgono quello lo sguardo. Sempre. Lo facevano tra i corridoi della scuole, tra le vie del piccolo borgo, lo fanno ancora. Nonostante tutto.

È un triste giorno di otto anni fa, il cuore di Lei si spegne per un intervallo troppo lungo, la vita diventa un’altra cosa. Il corpo è un involucro, l’anima però regge al tremendo urto. Gli occhi celeste restano dal color pastello ma la luce dentro par che si spenga.

Lui non si arrende. Diventa le sue gambe, la sua voce, il suo respiro. Le anime e i cuori erano tutt’uno già ben prima di quel triste momento. Gli occhi celeste dal color pastello sembrano non aver più luce. Un bagliore pare apparire solo quando Lui immerge lo sguardo nocciola nel suo Cielo. Quando quegli occhi tornano a incrociarsi, nonostante lei viva da otto anni su un letto.

Da otto anni Benedetto e Gerardina combattono ogni giorno: la vita e l’amore che sfidano la paura e la morte. Lei da otto lunghi anni è nel letto, chiusa in un mondo tutto suo. Lui la cura e la difende, si è estraniato dal suo di mondo per tentare, prima o poi, di entrare in quello di lei.

Non può, non possiamo saperlo, se Gerardina percepisca la sua presenza, ma oggi quando ho visto gli occhi nocciola tuffarsi in quelli celeste pastello ho avuto la sensazione che loro si incontrano in un altro mondo. Solo loro. Quello dell’Amore più puro.

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Mastopeppo, Claudio e i sogni che si avverano

Questa è una storia sui sogni che si avverano. Prima o poi. La storia di un giovane attore di talento che fa le pizze per campare, di un carpentiere in pensione, non sempre fortunato nella vita ma che non ha mai perso il sorriso ed ha sempre cercato il sorriso altrui. Una sorta di missione di vita, e di una nonna, che ben conosciamo,

Claudio Abate Chechile è un attore e regista amatoriale di Sala Consilina, bravissimo sul palco e negli sketch di Casa Surace, attore brillante e dalla battuta pronta. Per vivere, però, soprattutto in un’area interna come il Vallo di Diano, non basta e quindi fa anche il pizzaiolo, con ottimi risultati, occorre dirlo. Fa teatro da quando ha 11 anni, con il gruppo parrocchiale di San Pietro, “New Generation”, e poi coi “Ragazzi di san Rocco”. Quando Casa Surace decide di trasferire la propria sede e gran parte dei suoi set da Napoli al Vallo di Diano è tra i primi attori autoctoni a essere ingaggiato: le caratteristiche fisiche (non proprio sciupato) e soprattutto la sua bravura nell’interpretazione fanno di Abate Chechile uno dei volti, e dei fisici, più amati dai followers.

Quasi quanto MastoPeppo. Il nome d’arte o meglio il nome come tutti chiamano da decenni Giuseppe Petrazzuolo, un carpentiere in pensione, sui cantiere da quando aveva 15 anni e fino ad alcuni problemi di salute. Dopo di che tante porte in faccia e ora il riscatto social. E sociale. “MastoPeppo”, ha 68 anni, è un “personaggio” nella vita reale: canta ai matrimoni dove è invitato (e anche dove si imbuca), fa le battute al bar, racconta le storie per far sorridere. Lo fa per carattere e mai avrebbe pensato che sarebbe diventato famoso. I primi video con Casa Surace, poi la battuta nello spot “Che faccio, lascio?” che lo fa diventare virale. “Ora mi fermano in strada per chiedermi di ripeterlo e lo faccio volentieri”. Tre figlie, due nipoti e una moglie. Tutti orgogliosi di lui e di questo successo. “Grazie a Casa Surace per la prima volta sono stato a Milano per girare lo spot”. Ad accompagnarlo uno dei creatori di Casa Surace, Daniele Pugliese, che ha ripreso e fatto diventare virali. “Sul set mast’ Pepp’ è stato fantastico. Un professionista che è entrato nel personaggio, o forse è il personaggio che è entrato in lui perché è uguale”. La storia del carpentiere diventato famoso grazie ai video social e a uno spot è l’esempio di come non c’è limite di tempo per raggiungere i propri sogni. Ma se Giuseppe Petrazzuolo lo ha fatto a “soli” 68 anni, altra storia è quella di Nonna Rosetta.

Oramai è la nonna più amata del web. E lo è diventata dopo gli 80 anni. Ora di anni ne ha 88 (“ma non lo scrivere”) e nella pubblicità di Linkem è la protagonista assoluta. L’azienda di telefonia ha scelto Casa Surace e Nonna Rosetta e il suo volto noto (il suo ultimo video di candidatura alla Presidenza della Repubblica ha superato il milione di views), come testimonial della campagna pubblicitaria a tappeto. Nonna Rosetta non ha fatto una piega e Milano, durante le riprese, è stata la protagonista assoluta. Amata dai followes “nipoti”, la nonna non si spiega il motivo di tanto successo. “Ma li considero tutti nipoti e tutti sciupati e quindi mangiate e fate i bravi, mi raccomando”.

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Don Vittorio e il quadro ritrovato (dopo 38 anni)

(+++tratto da una storia vera+++)

E’ una fredda sera di fine febbraio di 38 anni fa. Il vento fischia tra le finestre e l’inverno resiste all’incombere della primavera. Lassù, nel paese arroccato su una roccia che sembra una mano che issa verso il cielo, e comunque l’inverno dura ben di più di quanto dica il calendario. Il profumo della neve pur se sciolta ancora persiste. Don Vittorio, ama quel suo paesello, e ama studiarlo. Ha appena chiuso la porta principale della chiesa del Santissimo Salvatore, prima, come ogni volta, ha fatto il segno del cristiano, un leggero inchino verso il figlio di Dio e uno sguardo per vedere se la chiesa è sicura. “Si, lo è”, si è detto, spazzando via un leggero dubbio. Torna a casa, una cena neanche tanto frugale, un bicchiere di vino rosso, anzi due “tanto il bicchiere è quello delle cantine e mi riscalda per bene”, le preghiere e poi il sonno che viene senza fatica. L’indomani mattina don Vittorio, studioso di teologia e di arte, studioso dei giorni e della vita, appena arriva davanti alla chiesa nota che qualcosa non va, nota che qualcuno è entrato, l’ha profanata. I suoi occhi, una volta nella navata, scrutano ogni angolo e già sanno cosa gli ignoti hanno portato via. Don Vittorio conosce le opere della chiesa a menadito e conosce l’arte della scrittura come pochi. Prende carta e penna e scrive. Descrive, anzi, cosa hanno derubato. C’è un’opera alla quale lui tiene tanto: la “Resurrezione di Cristo”, un olio su tela di 48 centimetri per 28, di due secoli di vita. Don Vittorio è meticoloso, ne descrive ombre, qualità, luci, intensità, in pratica la ridipinge nella descrizione. E porta quel testo, che se non fosse una denuncia sarebbe un capitolo di un libro d’arte, ai carabinieri. I militari guardano quel prete, quel testo e scuotono la testa: furti su commissione, difficile scoprire l’autore, arduo recuperare il bottino. Inviano tutto ai colleghi che si occupano di questi furti: quelli per la tutela del patrimonio culturale. Ora, sia chiaro, 38 anni fa non c’erano le attrezzature informatiche oggi, le foto, i riscontri, i database e chi voglia aggiunga, soprattutto non per un quadro rubato in uno sperduto paese del sud Italia. Ma don Vittorio, prega, spera e descrive allo stesso modo: con intensità estrema. La sua descrizione è minuziosa, è un quadro del quadro, e i carabinieri nel corso del tempo aumentano le possibilità tecnologiche. Quella descrizione entra in un database sempre più efficiente, quei militari si interessano sempre di più delle opere rubate. Don Vittorio diventa sempre più uomo di cultura e di teologia, sempre meno giovane ma sempre più miniera di Storia. E spera sempre. Quel quadro tornerà a casa, dirà, in punto di morte, prima di salutare i suoi cari e abbracciare il suo Dio. Un anno dopo, i carabinieri, grazie a quella descrizione così minuziosa, a quel quadro del quadro, notano un’opera a un’asta, a Palermo, a centinaia di chilometri dalla sua casa. Comparano, confrontano, sequestrano. E’ quella “Resurrezione di Cristo”, è il quadro di Don Vittorio, anzi no della “Chiesa del Santissimo Salvatore”. E 38 anni dopo, all’alba del 39enismo anniversario da quel furto sacrilego, da quella descrizione certosina di Don Vittorio, quel quadro torna a casa, nella sua chiesa, nel suo paese.

Don Vittorio non c’è più, e non si sa come avrebbe descritto questo momento. Di certo avrebbe sorriso. Anzi, sta sorridendo proprio ora.

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L’essenza dei sogni

Sogno di fare il principe. O forse lo scrittore. E ancora il calciatore. Magari il giornalista. Addirittura il modello.

Pensare in grande, guardare le stelle e sperare di toccarle un giorno è insito in ognuno di noi e rischiamo di perdere quella che potrebbe esser la vera essenza dei sogni: quella di realizzarli. Ecco perché Mustapha è un’eccezione. O forse semplicemente è uno come tutti gli altri ma ha il coraggio di sognare – e dirlo – le cose semplici. Sogna di fare l’elettricista. “Un grande elettricista”, mi ha risposto con schiettezza mentre stavamo facendo un’intervista sul suo essere primo arbitro richiedente asilo della Campania. Mi ha spiazzato. Pensavo mi dicesse di arbitrare la finale dei Mondiali, di essere il più bravo arbitro del Gambia, e invece no, lui, ragazzo sorridente di 22 anni, sbarcato 5 anni fa in Italia, ha sogni concreti. Sogni meravigliosi.

Sia ben inteso, credo sia magnifico fare sogni quasi impossibili. perché la vera essenza dei sogni è chiudere gli occhi e viaggiare. Magari allargando le braccia e planando verso il traguardo. Per questo anche il sogno del signor Fernicola, mandriano di Buccino, di diventare Presidente della Repubblica, mi ha trasmesso un sorriso grande così. Lui vuole il sogno che è dentro ognuno di noi: cambiare il mondo, renderlo migliore. Magari il traguardo è un po’ complesso da raggiungere, ma se non si comincia a correre da qualche parte, non esisterebbe neanche il traguardo.

Poi penso al sogno di Alice – il nome è di fantasia – che ha il sogno più semplice del mondo. Vivere anche domani.

Ecco tre sognatori che ho incrociato nelle ultime ore. E tanti e tante ne incontro grazie al mio lavoro. L’artigiana che ha aperto il suo laboratorio di ceramista, il musicista che ha inciso il suo primo disco, il contadino moderno che vive senza tivvù e coccola il suo grano, chi ha in cantiere il suo primo libro e non vede ancora la luce. Ve ne parlerò per parlarne a me.

Nel frattempo continuerò a sognare di essere un modello. O magari uno scrittore. Perché no, un giornalista.

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Sara. La giornalista.

Ore, giorni, settimane a seguire il profumo dell’acqua. Le gocce che svaniscono davanti ai suoi occhi e a quelli della sua operatrice. Davanti alla telecamera e sotto il microfono. Rabdomante di notizie più che di sorgenti, ma che proprio parlando di acqua, anzi della sua assenza, è potuta volare dall’entroterra del sud Italia, che ha riscoperto da poco, fino alla Grande Mela. A New York per essere celebrata.

Questa è una storia di una giornalista intrepida, che non molla la presa e che fa del racconto la sua ragione di vita. Che siano le violenze sulle donne nel medio oriente, la carenza di acqua in Iraq, lo sfruttamento del cibo e del lavoro lungo la Penisola, il chicco di grano della sua terra. Questa è la storia di Sara, che ieri è stata quasi costretta a indossare un abito che forse non rispecchia il suo essere ma la sua nobiltà professionale probabilmente sì. Un abito da sera per ricevere un premio giornalistico legato all’inchiesta sulla carenza di acqua in Iraq con la videomaker Arianna. Questa è anche la storia di una giornalista che tenta di raccontare il mondo attorno e di viverlo. Quando si trovava in Libano, parlava di quell’angolo (ampio) di mondo. Quando si trovava in Lombardia scriveva di quell’angolo (un po’ meno ampio) d’Italia. Da quando si trova nell’entroterra salernitano scrive di quest’angolo (molto più piccolo) del Sud. E continua a seguire tutte le sue storie. A viaggiare in Medio Oriente per non perdere il filo del racconto, che non è social ma giornalistico. A seguire le storie di lavoro e sfruttamento. A seguire qualsiasi cosa fa notizia. La sua notizia.

Questa è la storia di uno fisico minuto, di due occhi chiari assai vivi, di una giornalista senza timori di fronte alle difficoltà, che non ha paura di affrontare le spine del giornalismo, siano esse le minacce che arrivano da chi non vorrebbe i suoi occhi e la sua penna addosso o dagli investimenti poveri di un modo di fare giornalismo sull’acchiappa clic e il “copia e incolla”. Sara per questo motivo sta anche portando avanti, senza indugio, un crowfounding sul progetto “La terra mi tiene” nel quale racconta il grano e chi di grano vuole ancora vivere. E può farlo.

Ovunque sia, lei racconta. Ma stavolta è lei il centro della notizia, vestito da sera e sorriso. Il premio giornalistico tra le mani e già la voglia di cercare una nuova storia all’orizzonte.

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Ignazio

L’ultimo chilometro è sempre quello più difficile, quello che non finisce mai. E stavolta non avresti mai voluto che finisse. Chiodi attraversano i quadricipiti, denti aguzzi di cane entrano nei polpacci, ma il traguardo è sempre più vicino, le fatiche della corsa, della lunga corsa di una vita, si fanno sentire. Giri la testa, guardi alle spalle, sorridi perché hai fatto una grande corsa e tanti ti seguono e nessuno è riuscito mai a staccarti davvero. Gli spettatori applaudono convinti, e tu, ancora una volta come sempre hai fatto, sorridi, alzi la mano e saluti. Il traguardo è a pochi passi, il tuo numero è ben visibile sul petto, lo mostri ancora una volta, orgoglioso e fai bene. Poi chiudi gli occhi, alzi le braccia al cielo e tagli il traguardo. Hai vinto ancora una volta. E stavolta continui a correre tra nuvole e stelle.

Si celebrano sempre i grandi atleti, si salutano come meritano perché sono stati esempi sportivi – a volte non di vita -, perché hanno dispensato emozioni, perché hai tifato per loro e quando hanno vinto, ti sei sentito vincitore anche tu. Ignazio esempio lo è stato davvero. Anche di vita.

E Ignazio grande atleta nel suo piccolo mondo lo è stato davvero. Ha corso quando la corsa non era di moda. La sua falcata ha superato gli sguardi stupiti e pieni di giudizi con agilità. Il suo sorriso ha coinvolto. Al suo fianco, spesso alle sue spalle, hanno cominciato a correre altre persone, altri atleti. Liberi di essere se stessi in un territorio che fagocitava pallone. Gennaro, Salvatore, Mimmo e lui, Ignazio davanti a tutti. Poi sono arrivati tutti gli altri. Centinaia. Ignazio quando correva salutava tutti, sorrideva anche quando la fatica lo circondava senza pietà. Lui con la corsa si sentiva libero e regalava libertà.

Ignazio questa mattina ha tagliato il traguardo della vita, ha corso la sua ultima gara, si è girato alle spalle, non ha visto avversari, ma compagni di un’avventura magnifica che è stata possibile solo grazie a lui. I muscoli hanno fatto male un’ultima volta, il fiato è mancato al termine dell’ultima fatica e con il petto ha tagliato il nastro finale. E si è sentito leggero come quando correva da solo. Ora il suo esempio continuerà a correre forte come quello dei grandi atleti.

Perché Ignazio era un grande atleta nel suo piccolo mondo.

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Mia

Ingrano la terza, con la sinistra stringo lo sterzo. Accelero con forza. Guardo avanti. La cerco, l’ho intravista. Prendo il cellulare, suona ancora a vuoto. Cazzo rispondi. Digrigno i denti, stringo gli occhi. Perché non rispondi? Attraverso i fasci dei lampioni, aumento i giri dell’auto. La devo trovare. Guardo il display del cellulare, non legge i miei messaggi? Mia ha visualizzato ma non vuole rispondere. Come si permette?

Ho paura, le mani tremano e stringo più forte il volante per cercare di fermarle. L’auto vibra sotto di me e non so se perché le mani non si fermano o se perché sto accelerando troppo. I lampioni sembrano sempre più vicini. Il telefono suona. E’ sempre Lui, non voglio più rispondergli. Non ce la faccio più.

Butto il cellulare sul sedile del passeggero. Poi me ne pento. Potrebbe richiamarmi, potrebbe capire che è stato un gesto istintivo, ma se lo meritava. Che la amo. Anzi la possiedo. Guardo il sedile passeggero, il cellulare è capovolto, rallento un attimo, lo prendo di nuovo in mano e richiamo. Nulla. Do un’accelerata decisa e dopo la curva mi sembra di vederla.

Un fascio di luce appare nello specchietto retrovisore. Gli occhi vanno veloci, il cuore di più. Mi volto, è Lui. Il viso mi duole ancora di un altro schiaffo. Dell’ennesimo schiaffo. Nelle orecchie echeggia quella “troia, mi fai schifo”. Non ce la faccio più. Non sono sua. Nessuno è di un altro.

Stringo il pugno destro, la mano freme. Ha ancora voglia di colpirla. Giusto sia così, non può rispondere. Non deve. Accelero, la vedo oramai, le sto vicino, scalo una marcia, la supero e la blocco. Apro lo sportello e scendo lento, prima allungo la mano dietro il sedile. Deve avere paura di me. Lei è Mia.

Sono bloccata, tremo, piango. Scende dall’auto, si avvicina. Faccio in tempo a chiudere le portiere con la sicura. Cerco il cellulare, devo chiamare aiuto. Ma dove è? L’ho buttato chissà dove, per fuggire dai suoi messaggi. E ora come fuggo da Lui. Ma cosa diavolo ha in mano?

La vedo dal finestrino, fa finta di piangere, bastarda di una frignona. Ha messo le sicure. Rido di cuore, pensa di fermarmi. Io sono forte, sono il maschio che lei ha sempre desiderato. Alzo il braccio e faccio partire il bastone. I vetri si frantumano.

Entrano nella pelle, negli occhi, nella bocca. Sento le schegge ferirmi. Sento dolore ma poi arriva la paura. Il suo fiato puzza di odio. Chiudo gli occhi.

Sei Mia.

LIBERAMENTE TRATTO DA DIVERSE STORIE VERE

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Lei

L’inferno appare dietro il buio. O forse è proprio questo buio l’inferno. Un buio intenso e accecante, unico proprietario del vicolo cieco dove mi sono infilato. Non ricordo neanche quando abbia fatto il primo passo in questa oscurità. Sarò stato adolescente, forse. Volevo fuggire dal mio paese eppure ci restavo intrappolato. Davo le colpe a confini troppo stretti, per trovare un colpevole, una scusa, per crearmi un nemico da abbattere con una sola arma: Lei. Le colpe le davo alla famiglia, alla vita, all’amore. Giustificazioni sgretolate nel tempo. Nel corso degli anni. Nei passi corti e traballanti in questo buio che mi circonda. Anni di oscurità. La prima volta è stata con l’amico, la seconda con alcuni compagni. L’ultima non ricordo con chi, eppure è stata pochi minuti fa. Poco prima di questo ultimo passo. Vedo la gamba andare avanti ma non sono io a guidarla. Vaga. Vago. Ora non sto male, finalmente sento un brivido di felicità. Dura sempre meno, non è più un brivido, è un briciolo. Ma forse non è neanche felicità. E’ vita, briciolo di vita, perché per il resto del tempo mi sento un morto. Affamato di Lei. Pensavo di essere rimasto da solo e invece in questo vicolo dal buio accecante ne sento tanti altri, sento voci giovani, ragazzi come me trent’anni fa. Fanno i miei stessi passi, potrei fermarli ma non mi frega nulla di loro. Ho in mente solo Lei e se loro possono aiutarmi a trovarla, li porterò nell’inferno con me. Ho smesso di avere sentimenti, non mi sono accorto manco quando. Ogni tanto ho un rigurgito di umanità e vorrei dire di smettere, a loro e a me. Lo vomito quel rigurgito e continuo a vagare in questo buio allo stesso tempo terribile e confortante.

Poi arriva la sera, credo sia sabato ma ho perso anche il conto del tempo. Parcheggio, la strada la conosco. Ma potrebbe essere qualsiasi altra strada. Ho perso il senso del luogo. Il buio lo vedo già avvolgermi, come nebbia, meno fredda, però. Sento che oggi è ancora più oscuro del solito, sarà una impressione, sarà che oggi Lei è ancora più amara. La provo, la bacio, la fumo, la sento scorrere nelle vene, impadronirsi dei polmoni. Chiudo gli occhi, ho bisogno di quel briciolo di vita che solo Lei, ormai, sa darmi. Aspetto. Invano. Non mi dà felicità. Il buio è ovunque. Questa notte, Lei ha deciso diversamente. Non mi dà il briciolo di vita. E in verità questa notte mi ha tolto anche la Vita. Ed è buio per sempre.

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Irma

Sorriso e memoria. La gioia di insegnare, la felicità di ricordare. Costruttrice di altrui futuri. Questa è la storia di una suora che ha vissuto un secolo. E lo ha vissuto nel modo migliore possibile. Questa è la storia di come le persone possano diventare monumenti viventi, ricordi indelebili, possano lasciare un segno, una traccia nella vita di chiunque abbia la fortuna di incrociarle. Questa è la storia di una maestra che ha lasciato il segno in migliaia di bambini.Questa semplicemente è la storia di una suora. Suor Irma.Questa è la storia di una Maestra. E potrebbe essere la storia, allo stesso tempo, di tante maestre.

Di tanti insegnanti di vita e di chi vive la scuola per l’alunno, per i ragazzi. Costruttori di futuro. Irma era una creatrice di futuri, un muratore, anzi no, un’architetta di scenari possibili. Ha dato le basi ai suoi scolari, basi sulle quali costruire i giorni a venire, i mesi e gli anni di una vita. Fondamenta forti, tanto che in ognuno dei suoi scolari ha lasciato la firma. La Maestra, una maestra. Un esempio anche per chi ha insegnato. Un secolo di vita, migliaia di alunni (e straordinariamente li ricordava tutti), milioni di lezioni. Un solo univoco ricordo, indelebile. Il suo Amore per chi vedeva seduti tra i bambini.

Questa è la storia di Suor Irma. Ma è anche la storia di ogni maestro, professore, insegnante che ha saputo capire il suo ruolo, che ha avuto talento per il suo mestiere, che avuto amore per chi aveva di fronte e ha segnato, chi più e chi meno, il futuro uomo o la futura donna che aveva di fronte. Questa è la storia di quei professori che mi hanno lasciato il segno, che mi hanno fatto sentire di avere potenzialità, capire che la Scuola non deve solo essere un limbo di passaggio, ma un mattone fondamentale per la costruzione del proprio mondo. Questa è la storia di Suor Irma. La Maestra di una Scuola diversa che lei ha incarnato per un secolo di vita. Questa è la storia di Suor Irma e di tutti i costruttori di futuro.

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Le donne di Violeta

Questa è la storia di una canzone. Di una preghiera cantata, di un urlo non strozzato. Questa è la storia di chi ha pianto e continua a piangere la propria mamma. Questa è la storia di una mamma che prima di morire, bruciata viva, pensa ai tre figli. Al loro futuro. Lei che futuro non ne aveva più. Ed è la storia di sua mamma, fiera fino a quando non arriva a pochi metri dalla figlia e piange. Lacrime senza fine.

Questa è una storia di tre anni fa. Di due taniche di benzina che invadono una stanza, di una mano assassina che dà fuoco a tutto. Alla vita di Violeta. Di una donna che non ha più spazio di vita. Uccisa per mano del suo compagno.

Questa è una storia che non ha processo, l’uomo morirà in carcere professando sempre la sua innocenza. Questa è una storia di indagini, di video, di ricostruzioni e di arresto. Di minacce, di liti, ma soprattutto di lacrime. Quelle dei figli, della loro nonna.

Le lacrime che anche oggi pomeriggio sono cadute sul terreno già umido del cimitero, tra mazzi di rose e perse tra colori di mille fiori. Le lacrime di tante donne. Di quelle donne che hanno voluto abbracciare ancora una volta Violeta, la sua famiglia, i suoi affetti. Donne che vogliono che Violeta venga ricordata affinché non ce ne siano altre come lei.

Questa è una storia però non è isolata. Che viene ripetuta di continuo. Ovunque. Senza sosta, senza freni. Senza remore. Senza motivo. Senza cuore. Le stesse lacrime, gli stessi dolori. Femminicidi. Violenze. Minacce. E con gli uomini grande assenti. Proprio come oggi a Sala Consilina, solo Umberto e poi nessun altro. Perché questa è una storia che sembra tanto non ci riguardi.

Questa non deve essere solo una storia di donne.

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Giuseppe

E’ un giorno di festa, forse una domenica. Fa freddo, il vento taglia il viso. Non il sorriso di Giuseppe. La piazza è quella di un tempo, per il passeggio, per lo struscio, per la corsa dei bambini. Non un parcheggio come ora. Giuseppe sorride perché gli hanno promesso un sogno. Ancora non sa che il destino sta per svelare il suo avvenire. Sorride con Salvatore, il fratello. Sono insieme. Il freddo è pungente, Giuseppe quando ripensa a quel giorno, ancora lo sente nelle vene il gelo di una sera d’inverno del suo paese. Giuseppe e Salvatore sono protetti da Cosimo, il loro papà. Stringe loro i giubbotti, li prende per mano e va. Vanno. Arrivano davanti alle scale, a Giuseppe che avrà sei o sette anni, sembrano lunghissime. Legge una scritta “Adriano”. Poi l’altra “Iris”. Poi vede una foto, un manifesto. C’è un signore elegante, “in smoking” gli dice il papà, che punta la pistola proprio verso i due fratelli. Ma quell’uomo ha uno squadra rassicurante, quasi ammaliante. Giuseppe gli sorride, gli ricambia lo sguardo e quasi lo vede uscire fuori dal manifesto. “Che strano papà, si chiama con un numero”. E legge: “Zero, Zero, Sette”.

Il freddo scompare quando si chiude la porta alle loro spalle, quando l’odore di pop corn riempie le narici e anticipa allo stomaco quale sarà il prossimo piatto. Giuseppe alza la testa, toglie il cappello e guarda la sala. E’ piccola ma sembra immensa. Si siede, il cuore batte forte, stringe la mano al padre e guarda davanti. Vede il momento preciso in cui la luce bacia la tela bianca di fronte, spuntano le immagini, e il suono di una musica emozionante lo avvolge. Poi spunta una sorta di imbuto dallo schermo che fa cornice a lui. A James Bond. All’agente 007. All’ultimo Sean Connery. Giuseppe esce dal cinema entusiasta, coinvolto, sconvolto.

L’odore del pop corn nelle narici, il loro sapore in bocca, la musica nelle orecchie e il Cinema negli occhi. Nel cuore. E’ già innamorato di quel mondo. Acquista alla prima bancarella, in piazza, una pistola giocattolo. Si sente l’agente 007, si sente invincibile. Gioca con Salvatore. E sente nelle vene crescere un’energia che non sa spiegare al momento. Una magia che forse avrà capito su un tappeto rosso, vestito elegante come quel signore sul manifesto, alla Festa del Cinema di Roma, quando ha conquistato il pubblico e la critica con un film, il terzo, da lui girato. E’ l’Arminuta, è la magia che si ripete, il ritorno a quella domenica nel suo paese, a quel freddo rimasto nelle vene, a quel Cinema che è germogliato nel suo essere.

*Giuseppe Bonito è un regista di Sala Consilina, ha tre lungometraggi in carriera, l’ultimo è “L’Arminuta”.

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Dora

Questa è una storia che non ha ancora una fine. E che non avrà fine neanche quando e se ci sarà una risposta certa ai tanti quesiti rimasti irrisolti. Per cronaca ho dovuto, e voluto, raccontare, cosa sia avvenuto – o si ipotizza sia avvenuto – in via di Giura a Potenza, la notte tra venerdì 8 ottobre e sabato 9. L’ho fatto da sabato mattina, da quando, dopo aver sentito un’amica di Dora, mi è stato detto: “Impossibile sia suicidio”. Ho pensato di vederci chiaro, di pensare ad altre ipotesi. Magari raccontarle.

E allora questa è la storia di Dora. Di chi la conosceva prima e di chi l’ha conosciuta solo attraverso foto e parole. E di chi pensa di conoscerla attraverso le ultime stories su Instagram. Persone vacue. Spettatori di altre vite. In realtà è una storia di lacrime di chi davvero la conosceva. Di chiacchiere di invece millanta che la conoscesse. Questa è la storia di una ragazza che amava la vita, che amava farsi volere bene. Non entro e non posso farlo, per ora, nei meandri della storia d’amore con il suo fidanzato. Lo faranno – devono – gli inquirenti.

Questa è una storia che difficile da raccontare, perché è facile cadere nel giudizio e nel pregiudizio. Nel chiacchiericcio o nell’ipotesi facile. Quella ovvia, quella che dimentica i nodi della vita. E invece andrebbe raccontata dalla parte più difficile. Dal dolore. Quello traspare, silenzioso, da chi amava davvero Dora, da amici che l’hanno vissuta, da chi ha incrociato i suoi sguardi, da chi ha semplicemente gioito con lei, per un suo successo. Dal dolore di una famiglia, di due genitori svuotati, da una sorella alla quale è stata strappata l’altra parte di sé.

Questa è una storia che non avrei mai voluto raccontare, una cronaca che ha scatenato il circo mediatico e fatto calare il sipario sui sentimenti veri. Ma che andava raccontata per non far calare il sipario sulla verità. Qualsiasi essa sarà.

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La polvere della memoria

Questa è una storia vissuta da tutti, e che volevo scrivere senza motivo concreto, per sfogo o malinconia. Per paura. Pensando a chi questa scena ha vissuto già.

Mi siedo sul pavimento, incrocio le gambe. Una posizione Yoga direbbe qualcuno, la mia seduta più comoda, dico io. Il freddo delle vecchie mattonelle supera la tuta che indosso, mi provoca un brivido lungo la schiena. O forse sono le scatole che ho di fronte a provocarmelo. Decine, dal colore uguale, di forme diverse. Sigillate. Sono lì da tempo. La mia memoria non riesce a risalire a quando, quella stanza fosse stata vuota. La ricorda sempre come la “Stanza delle scatole”. La polvere è un sigillo in più. Segno che quegli scrigni non sono stati toccati da Nessuno.

Se non dal Tempo.

Tiro a me quello più vicino. E’ grande quanto un televisore da camera da letto, mi ricorda il mio vecchio Mivar poggiato sul mobile di fronte al letto nella camera da studente universitario. Divago con la mente perché non voglio rompere quel sigillo. Stento anche a togliere la polvere. Ho delle pezze stropicciate al mio fianco che mi aiuterebbero nel compito, ma mi sembra un oltraggio anche quello. Anche togliere la polvere. Forse non un oltraggio ma una barriera da non superare. La memoria è quella dei ricordi vissuti insieme, non quella degli oggetti. Dei suoi, dei nostri. Sono, sarebbero, le emozioni, che dovrebbero raccontare ciò che era. Che sarà. E invece quelle scatole mi aspettano, soffio sul primo strato di polvere, uso lo straccio, prendo il coltellino e taglio il nastro. Un primo sbuffo di odore mi raggiunge le narici. Sa di sugaro. Apro, viaggio. Piango. Le prime lacrime scendono senza che manco me ne accorga, lo scopro quando noto il cartone inumidirsi. Allungo la mano senza guardare, tocco un indumento. Un vecchio indumento. Liso. Lo tiro su. E’ la sua seconda pelle. Piango. Non c’è più, ma c’è ancora in quella sua seconda pelle.

E piango.

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BÉLA TARR

La fibrillazione, mista a un po’ di tensione, si avverte nell’aria. E’ concreta, quasi visibile. Taglia gli occhi di ragazze e ragazzi che attendono il Maestro. Sferza il viso di chi, con estrema difficoltà e invidiabile professionalità e passione, porta avanti uno scrigno raro chiamato cinema Adriano. A volte non conoscere davvero l’aurea di chi si dovrà intervistare aiuta a percepirla, quella forza, senza preconcetti. Perché c’è. Un taglio di luce attraversa la città, sfiora le case della parte alta, quelle storiche, penetra l’antica piazza diventata parcheggio. L’auto si ferma proprio in quel momento. Il vento è freddo e si alza all’improvviso. Leggermente piegato su se stesso, la sigaretta già pronta in mano, Bela Tarr scende dalla vettura e alza la mano, a mo’ di saluto, quasi con scherno. Ad attenderlo, sono ancora solo le 18 e il film verrà proiettato due ore dopo, già una ventina di persone. L’applauso scatta spontaneo. Così come i sorrisi.

Osservatore esterno, di un mondo che non è proprio il mio, avverto il legame che c’è in quel momento. Che c’era anche prima di quell’arrivo, formatosi nell’ammirare le sue opere, formatosi nel crearle quelle opere d’arte.

Il Maestro, lo scienziato della telecamere ungherese, e il pubblico di appassionati, sembrano essere un tutt’uno. Il regista, vestito di nero dal collo ai piedi, dove però il colore lo danno delle sbarazzine Converse, alza gli occhi al cielo e vede una scritta che ha il sapore di Storia: “Cinema Adriano”.

A me, personalmente, ha sempre ricordato, come il cinema – non più in funzione – Lux del mio paese, quel romanticismo malinconico di “Nuovo Cinema Paradiso”. Vorrei dirglielo ma mi mordo le labbra, capirebbe che le mie conoscenze per la settima arte sono ferme ai film “classici” italiani. Lo capirà lo stesso e non so come.

Fuma la sigaretta, scambia qualche parola con gli organizzatori, guarda dal basso, scruta, vede. Osserva. Chiede solo un attimo per poter entrare nella sala, da solo, e ammirare la luce della proiezione, capire se il suono è quello giusto. Insomma immergersi nella sua opera per un attimo. Il Cinema Adriano sa di Storia, ha fatto la Storia ma è anche presente. E Futuro difficile. Ed è quel luogo ideale che – credo – ogni regista cerchi per i suoi film. Non un “copia e incolla” di solite sale che mostrano film, ma un cinema che fa parte del film stesso. La cornice ideale. Esce dalla sala il Maestro e sa che ha nell’agenda due interviste.

Scruta me e il collega, critico cinematografico, Donato d’Elia. Ho la giacca, figlia del tg appena letto e non certo per vezzo dell’intervista. Mi è rimasta indosso per il vento freddo che si è alzato. Donato è meno formale, più attento al Maestro, la sua aurea la conosce da tempo, vive per il cinema, lo studia, è cronista – se così si può definire – dei festival. “Prima mi intervisti tu – mi indica il regista ungherese – sei quello che sa meno di cinema, farai domande meno specifiche”.

Ci ha preso e non so come abbia fatto. Indico a mia volte un salottino al piano superiore, mi guarda e contro indica la sala cinematografica. Casa sua. È lì che parliamo di cinema e resistenza, di luoghi d’arte e possibilità di farcela. Di entusiasmo.

È lì che mostra la sua aurea anche a me, narratore di un mondo che non conoscevo e che per una serata ho vissuto.

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Giancarlo e l’età dei sogni

Esistono quelli bravi. Sono tanti. Esistono, poi, quelli con il talento. Sono un po’ di meno, ma ce ne sono. E infine esiste chi ha il Dono. Una rarità.

Questa è la storia di Giancarlo. Un cacciatore di sogni. Ha 69 anni, capelli bianchi come la neve, corti, pelle resa ebano dal sole maremmano e occhiali fucsia, per un tocco di eccentricità che non gli si darebbe. Ha vissuto avversità e tensioni nella sua lunga vita, ha intrapreso una strada, non era sua, ed è sobbalzato di fronte a buche e ostacoli inattesi. Rischiando di andare fuori da quella strada e perdersi chissà dove. Il lavoro da operaio si è sgretolato sotto i piedi, la disoccupazione sopraggiunto in età avanzata ha offuscato il futuro, la balbuzie infantile per un fratello perso in fasce frenato l’autostima. E un Dono, quello della scrittura, che è aleggiata nelle sue dita sin dall’adolescenza senza mai diventare davvero concreto. Almeno fino a qualche giorno fa.

Lo ha scoperto nel corso degli anni, in articoli di giornale di provincia, di estrema provincia. Ma lui sapeva, e sa, raccontare le storie, far vivere le emozioni, far vedere lo scritto come pochi altri. Anche se solo di una partita di calcio di Terza categoria. Quel dono, quello della scrittura, cominciava a essere energia vogliosa, quasi disperata di aver l’orgasmo del libro. Ma a quasi 70 anni di età, due figli, due matrimoni, una vita resa difficile dal lavoro che scompare all’improvviso, si può ancora sognare? E soprattutto cercare di realizzarlo quel sogno? Giancarlo, una sera di inverno, mentre era seduto davanti alla sua scrivania, ha sentito un tuono e la porta che è tremata sotto le vibrazioni del boato. Ha capito che il Dono non poteva più essere trattenuto e ha scritto. Senza freni, senza soste. Ha creato e incantato. Ha realizzato il suo sogno.

“Il Viaggio – i giorni di Erto”, edito da Heimat, è nato così, da un Dono, quello della scrittura che ha sempre corso nelle vene di Giancarlo Mallarini, da un tuono che ha permesso che esplodesse e dalla convinzione che deve essere di tutti noi che sognare si può sempre. E inseguire i propri sogni pure. E io quando l’ho letto ne sono rimasto incantato, ho dovuto mettere il cappotto quando ha parlato della neve perché mi ha fatto sentire il freddo. E’ questo il suo Dono. E’ questo il suo sogno diventato realtà.

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Raman

Chissà quale ombra ha attraversato il tuo cuore

per farti decidere di chiudere il fiore

stavi sbocciando, tra spine e sorrisi, paure e dolo

ripoteva essere una vita di tutti i colori

Ma non lo ha più voluto, hai preferito il nero

e ora la tua anima illumina un commosso cero

La colpa non è tua, ragazza dal dolce sorriso

ma di una società che non capisce più l’espressione del viso

E anche dopo l’ultimo viaggio

c’è chi si mostra ancora una volta poco saggio

non ti rispetta e non ti tutela

e ti fa divorare come una delicata mela

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Piuma, il guerriero

Leggero come la piuma, forte come un guerriero. Veloce nel voler venire al mondo, tenace nel volerlo vivere questo mondo. Questa è la storia di Brian Antonio, un destino scritto nei nomi. Questa è la storia di Rosa, giovane mamma di 24 anni e del suo compagno Gennaro. Questa è una storia con il lieto fine.

Brian è il nome del protagonista di Fast and Furious, il film hollywoodiano sulle corse ad alta velocità. È il nome scelto da Gennaro per il piccolo in arrivo. Forse, lui, il piccolo, lo sente suo quel nome e accelera, vuole venire alla luce prima del tempo. Vorrà farlo e ci riuscirà. Rischiando. È una gravidanza difficile quella di Rosa. Alla quinta settimana la prima minaccia di aborto. Neanche al quarto mese ecco ulteriori problemi. Il distacco quasi completo della placenta, è il 14 novembre e Brian sembra dover terminare ben prima la sua meravigliosa corsa. Trascorre una settimana e si rischia la morte intrauterina del piccolo. Rosa riposa, prende farmaci, viene curata dal dottore Francesco de Laurentiis, ginecologo del “Luigi Curto” di Polla. A dicembre è necessario il ricovero. Una settimana in reparto, Rosa ha le contrazioni e ma non se ne accorge. Non erano dolorose e solo i test le fanno notare. La situazione è critica per il piccolo in grembo. Si decide per il trasferimento al Policlinico di Napoli. Si avvia una cura per il blocco di contrazioni e cercare di posticipare il parto. Rosa è sola nell’ospedale di Napoli, il compagno non può andare per motivi di Covid. Rosa ha paura, teme per il suo primo piccolo in arrivo. E a dir la verità rischia anche la sua di vita. I medici e il personale ospedaliero lo sanno e glielo dicono. Rosa ha paura. Tanta. Ma ha anche coraggio. Di più della paura. La forza gli arriva da Brian. Da Gennaro. Dal cuoricino che le batte nel ventre. Ma i medici, quasi tutti, non danno scampo al piccolo. L’amniocentesi fa emergere anche un’anomalia nel cromosoma. Non tutti incoraggiano Rosa, qualcuno le dice di non combattere. Non la pensa così de Laurentiis. Sa che la terapia è quella giusta. Qualcuno ha poche speranze anche per Rosa. “Rischi di morire”. La tristezza, la solitudine, la paura avvolgono Rosa. La mamma ha un dubbio, un’ombra, poi sente un calcio nel ventre e capisce che loro due, Rosa e Brian insieme potranno fare grandi cose. Nella sua stanza una figura di Sant’Antonio, lei non crede. Tuttavia quella figura le fa compagnia. Le dà coraggio. Antonio, il secondo nome di Brian, sarà scelto in quel momento. L’anno 2020 sta per finire, la pandemia lo ha reso nefasto. Rosa lo saluta, quell’anno, con il timore di attendere cosa accadrà nel nuovo. Ma anche speranza. È il 3 gennaio. Brian Antonio dà l’accelerata decisa, è il suo giorno. I medici il giorno prima dicono a Rosa che dovrebbe pesare 500 grammi. Mezzo chilo di vita. Brian viene al mondo dopo 13 ore di travaglio, pesa duecentotrenta grammi di più. È quasi un sollievo per Rosa. Brian è un petalo di 730 grammi, lungo 30 centimetri. Una piuma. Ma anche un guerriero. E deve ancora combattere. Ora tocca solo a lui. La mamma è salva. Il piccolo viene ricoverato, ha una perforazione dell’esofago. Il 6 gennaio va al Santobono di Napoli. Lì lo veglia un angelo che si chiama Pasquale Esposito, figura fondamentale della terapia intensiva neonatale. Per più di una volta, tempestivo nel capire il problema, arriva e aiuta il guerriero nella sua battaglia per vita. Sei mesi dopo quella battaglia la vince. Dopo oltre sei mesi lui, un bambino di quasi cinque chili, e la mamma possono tornare a casa. Possono essere accolti da Gennaro. Possono vivere sorridendo.

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Anna

Questa è la storia di Anna, questa è una storia di migrazione e sentimento. Questa è una storia che non ha un lieto fine.

La casa a migliaia di chilometri. L’affetto, la famiglia distanti dal cuore, dagli occhi. Da quegli abbracci che tanto mancano. Partita venti o trent’anni prima, Anna, aveva deciso, come tante sue amiche e compagne, di provare a regalare un futuro a quella casa. Lavorare, di solito badante o – come si diceva una volta – donna di fatica, per racimolare uno stipendio onorevole. Il giusto per vivere in Italia, il giusto per costruire il futuro a casa sua per i cari, i familiari. Là, a chilometri di distanza, doveva vivevano e dove ogni giorno mancavano gli uni all’altra. Nell’est d’Europa. Anna così ha fatto per anni, per decenni. Riuscendo nel suo intento. Anzi, ha fatto ancor di più. È diventata un po’ italiana e un po’ ucraina. Ha costruito, giorno dopo giorno, mattone dopo mattone, risparmio dopo risparmio, due futuri. Quello a casa sua, in Ucraina dove la sua famiglia ha potuto progettare, costruire, vivere e non sopravvivere, quello in Italia, che casa sua un po’ lo è diventata, dove ha vissuto anche la sua passione: aiutare gli ultimi. Forse per questo da un po’ di tempo era entrata in una cooperativa, ed era diventata un faro per i progetti, gli aiuti, per colleghi e colleghe. Anna ha sempre sorriso, allungato la mano e lo sguardo. Che siano stati gli ultimi, che sia stata la sua famiglia che viveva lontano da lei. Ecco la mano verso l’Ucraina, Anna, l’ha sempre allungata anche solo con il pensiero verso l’est dell’Europa per toccare, carezzare, i suoi affetti. Quanto le mancava non poterli abbracciare. E quanto la pandemia ha acuito tutto questo. Per questo, Anna, era al settimo cielo quando è stata accompagnata all’aeroporto di Napoli. L’aereo pronto a partire, l’Ucraina sempre più vicina, l’abbraccio con la figlia a un battito d’ali dopo anni di attesa. Sorrideva, Anna. La vita è crudele a volte. Quell’abbraccio è restato un’immagine imprigionata negli occhi chiusi di Anna, un pensiero, un sogno. Perché Anna, a 60 anni, non ce l’ha fatta a partire, a volare a casa sua. Anna ha avuto un malore in aeroporto, è morta a poche ore dal ritorno a casa sua. È morta facendo piangere i suoi affetti in Ucraina, e i suoi affetti in Italia. Perché Anna aveva due case, ed entrambe oggi sono a lutto.

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La forza di una mamma

Gli occhi, sono gli occhi che mi infastidiscono. Anzi no, mi feriscono. Mi
guardano e cosa vogliano da me. Mi scrutano, cercano il mio Buio. Ma è mio, da
tempo, non ricordo neanche da quanto, e già mi logora senza che loro mi fissino
così. Guardate altrove. Mi fate del male.

Gli occhi, sono gli occhi che mi trafiggono. Sono fardelli insopportabili.
Non lo voglio fare. Voglio la mia casa, la mia camera, il mio divano. Il mio
mondo. La mia tuta. Perché devo essere qui? Non è il mio mondo. Tutti mi
odiano.

L’oscuro mi avvolge ancora una volta. Anche oggi. Ma sento che oggi è un
giorno speciale e non può vincere ancora lui.

Gli occhi, sono gli occhi che mi aiutano. Questi occhi che mi guardano da
così vicino sono pieni di energia. Di purezza. Non è compassione. Non è
giudizio. Sono occhi di Amore. Sono quegli occhi che ogni tanto illuminano il
mio buio. Non ce la faccio, ma devo farlo. Questa musica poi.

È un Dolce sentire questa musica, mi spinge. Mi solleva, mi rafforza e dio
sa quanto sono debole. Sono stanca. Ma ho due pilastri, due radici che mi
sostengono. Ora sono qui. Ieri lo erano. Domani forse lo dimenticherò ma oggi
no. Oggi le vedo il loro amore. Lo sento. Oggi lo accendo quel buio, spengo gli
occhi degli altri e apro i miei.

Quanto è lungo questo cammino, per fortuna ho loro due. Per fortuna sono
qui. Oggi è il suo giorno, il giorno della sua gioia, della mia roccia. Se gli
ho dato quel nome un motivo ci deve essere. Oggi devo essere forte. Domani lo
dimenticherò, domani forse tornerà il buio ma non oggi. Non deve, non può.
Piange. Piango dentro. Oggi sono più forte dell’Oscuro.

Lo guardo, lo amo. Mi guarda mi ama. Sono gli occhi che mi danno la forza.
Quella musica mi risuona dentro.

È lunga questa giornata ma resisto. Come mai prima. Oggi vi ho schiacciato
fantasmi. Rido dentro, non lo sentite ma io sì e anche loro. Rido mentre ballo
con lui, ricordo una canzone di Sanremo, è un ballo antico. Un ballo d’amore.
L’amore per mio figlio. Per mia figlia.

Oggi l’oscuro l’ho battuto. Proprio oggi che dovevo batterlo ce l’ho fatta.
Rido dentro. E per un attimo sono felice.

 

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Chi è il tifoso di calcio?

Il tifoso del calcio è un misto, un cocktail, un frullato di roba. E’ un incosciente, un ragazzino, un fanatico, un credulone, è uno che passa sopra tutto e sotto tutti. E’ uno che vive l’estate sperando che il suo club acquisti quel giocatore e che vive l’inverno insultandolo, quel giocatore. E’ uno che crede che la maglia sia una bandiera e i giocatori che la indossano la sventolano ogni volta che scendono in campo. E’ uno che supera gli ostacoli macinando chilometri, il 12esimo uomo, l’uomo in più. E’ colui che non dorme dopo una sconfitta e beve cascate di birre dopo una vittoria, è colui che butta la torta del compleanno nella spazzatura se la squadra perde la finale. E’ un calciatore mancato, un allenatore mancato, un presidente mancato, è disposto a divorziare pur di non perdere l’amichevole con una squadra di terza categoria, ama e odia, tifa e insulta. Tutto per poter dire: “Ho vinto, adesso vi ho fregato a tutti”. Perché quando vince la squadra vinci tu e si parla con il “noi”. Ecco, persone come Lotito, come chi vuol fare la Superlega, presidenti che ragionano solo con il cervello, questo lo dimenticano e non dò la colpa ai tifosi, no, per loro, per noi, per me, chiedo la clemenza della corte, il beneficio delle attenuanti per totali infermità mentale.

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Venghino signori venghino. Ricomincia la vita

Venghino signori venghino.

Le luci si accendono.

Venghino signori venghino.

Si alza il sipario.

Venghino signori venghino.

Lo sgranocchiare dei pop corn. Il clap clap degli applausi.

Venghino signori venghino.

L’equilibrista balla sul rullo, i birilli volano in cielo incorniciando il sorriso concentrato del giocoliere, il clown rapisce gli occhi dei bambini.

Venghino signori venghino.

L’artista vola sulla corda, la giovane atleta mostra la delicatezza della forza, la magia scatena l’ooooh sorpreso del pubblico.

Venghino signori venghino.

Cammina su una corda come fosse una passerella, volteggia tra lenzuola fluorescenti, l’ombra dondola sulle pareti del tendone, sembra il volo di Peter Pan.

Sotto un tendone giallo e blu si celebra il ritorno alla vita. Ai sorrisi allegri dei bambini, alla spensieratezza di un momento ritrovato. Il ritorno al lavoro per giovani artisti fermi da troppo tempo.

È solo un piccolo e talentuoso circo di provincia. Eppure per un attimo sembra che sia tutto il mondo ad applaudire gli artisti che si inchinano emozionati e felicemente stremati.

(+++nella foto la baby Denise Castellucci, 14 anni, artista fenomenale dell’omonimo circo che due giorni fa è ritornato a lavorare dopo sei mesi di stop per Covid+++)

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La notte dei vaccini

C’è la mamma che porta il figlio e si fa anche lei il vaccino. Ci sono decine di mamme e qualche papà che accompagnano figli adolescenti come se fosse un concerto. C’è Anna, 12 anni che affronta “un po’ di paura” e poi si vaccina mentre mamma e papà aspettano fuori. C’è Angelo, volontario (e capo) della protezione civile Gopi di Polla che fino alle 2 di nottee, lo ha fatto per 12 ore, snocciola nomi su nomi. Placa gli animi e ogni tanto, spesso, grida. Ci sono i suoi volontari, instancabili. C’è Francesco, vigile urbano, che stacca il turno dopo 12 ore, ma non lascia il posto fino a quando la situazione non si tranquillizza. C’è Gerardo che non smette di fare iniezioni. Così le sue colleghe e colleghi. C’è Federica che vaccina se stessa e Martina, la piccola che porta in grembo. Gioisce. E poi c’è ancora una signora di circa 70 anni che aspetta il suo turno con pazienza seduta su una panchina, tra centinaia di giovani in attesa, senza che però il suo nome arrivi (per un errore veniale) e allora la volontaria della protezione civile la nota e la va a prendere: “Non mi dite nulla ma la signora la porto a vaccinare”. E giù applausi. Da tutti. E ancora: fidanzatini mano nella mano, amici in gruppo che attendono mangiando una pizza, fratelli e sorelle che sorridono. C’è chi lo fa per “poter guardare la Salernitana”, chi “per star tranquillo”, chi “per tornare alla normalità”. Sono questi alcuni quadri della giornata dedicata ai vaccini, anche in notturna, all’ospedale di Polla. Prima i convocati, poi i resti (non proprio un open day) e coi “resti” che sono centinaia di ragazze e ragazzi provenienti da tutto il Vallo di Diano e che si sono iscritti su dei fogli dal primo pomeriggio. Non proprio tutto corre liscio tra assembramento, lunghe attese, nomi che scompaiono, altri che appaiono, proteste di chi iscritto da tempo non viene ancora chiamato e che non vuole vivere giornate di attesa così. Alla fine, però, c’è soprattutto quella voglia di uscirne, di tornare alla normalità, di vivere serate così non per il vaccino ma per vivere una vita che manca da quasi due anni.

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Il mondo del piccolo G.

Ha i capelli ricci e lunghi, piccolo Beethoven. Così mi appare anni dopo l’ultima volta ho incrociato le sue corse. I suoi balzi e i suoi silenzi. Quei capelli non erano così lunghi e non gli disegnavano il volto quasi da artista come lo vedo ora. Corre e sorride. E io mi mordo le labbra perché mi ritrovo a pensare che il mio mondo sia quello giusto e non il suo. Il mio è il mondo normale, non il suo.


Normale, la parola che tutto giustifica e tutto differenzia. La nostra normalità e il loro mondo. Da una parte la normalità, dall’altra…


Ha meno capelli dell’altra volta ma riconosco il suo volto. Mi appare più vecchio rispetto a qualche anno fa quando correvo perché volevo dire la mia e ancora nessuno mi capiva e lui mi guardava con quello sguardo che non sopporto. Quello sguardo di ora, quello che ritrovo in quasi tutti coloro che attraverso in silenzio e correndo, ma non in quello di mamma, i suoi occhi sotto i capelli biondi mi danno l’unica cosa che cerco: amore. E’ questa per me la normalità.

La parola che dovrebbe essere usata per coinvolgere l’altro: la mia normalità, la tua normalità…e così via. Ma ora voglio correre, è la mia energia che mi spinge a farlo.


Eccolo là, corre di nuovo. Mi ha guardato strano, che io abbia qualcosa che non va, mi controllo la patta del pantalone se è aperta, i capelli – pochi – se sono ordinati, se sulle labbra ho un resto di maionese del panino che ho mangiato. Nulla. E allora perché mi guarda strano? Rispetto a qualche anno fa è diverso, più attento ma non mi piace quello sguardo. Vabbè ma è diverso, lui ha problemi.

Perché mi guarda ancora così, sono cresciuto e ho lavorato molto su di me. Non voglio certo essere come lui, la sua normalità è triste, in bianco e nero, non vede il mondo a colori come me, la mia tavolozza magica da artista che mi fa disegnare il mondo come lo voglio io. E allora perché mi guarda strano? Rispetto a qualche anno fa è diverso, più anziano e ha gli occhi più stanchi. Vabbè ma è diverso, lui ha pregiudizi.


Lo guardo ancora, corre, salta, ancora una volta. Poi mi sorprende. Si ferma, mi fissa e sorride. Almeno mi sembra l’abbia fatto. E’ stato un attimo, fugace. Forse me lo sono immagino. Mi sembrava di aver scorto un’esplosione di colori dietro quel sorriso. Ma è stato un attimo, troppo veloce. Sarà stata la mia fantasia, ogni tanto mi rispunta all’improvviso come quando ero bambino e avevo amici immaginari, vedevo giocattoli muoversi da soli. Tanto tempo fa, quando ero stolto.


Mi sono un attimo fermato a guardarlo. L’ho fissato e ho pensato. Io so cosa è la felicità, tu l’hai dimentica. Gli ho sorriso sperando che la possa ritrovare. Tutti dobbiamo essere felici. Ora scusatemi, ho un amico da inseguire, dicono sia immaginario ma io lo vedo. Esiste. E lui non mi guarda strano come fanno tutti gli altri, lui mi guarda come mia mamma. Con amore e rispetto.

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Qua(ra)nta vita

No, questa storia, non inizia come si potrebbe pensare il 15 marzo del 1981, quindi 40 anni fa, bensì il 2 agosto del 1980. A Bologna.

Mia mamma, Raffaela per papà, Raffelina per il resto del mondo, con papà, Mimmo, e mio fratello Carmine, sono alla stazione di Bologna. C’ero anch’io. O meglio ero in arrivo. Secondo mese di gravidanza. La mia famiglia sale sul treno e parte verso Polla. Trascorrono pochi minuti e scoppia la Bomba di uno Stato nero. A casa, a Polla, pensano che siamo tutti morti. Per fortuna non è così.

Pochi mesi dopo, ancora senza essere venuto alla luce, perdo una delle figure più importanti della mia vita: il nonno di cui porto il nome e a cui dicono somiglio nel carattere.

Poi arriva un altro segno del destino: la partita tra Juventus e Inter. La mia squadra del cuore, la mia passione. Parlo dei bianconeri. Il caso vuole che proprio in quel momento arriva anche la Scossa. Con la S maiuscola, quella del 23 novembre. Morti e feriti, disperati e senza dimora in tutta l’Irpinia. A Polla per fortuna non si piangono vittime ma tante case sono danneggiate, anche la nostra. Così trascorro gli ultimi mesi prima di nascere in un vagone alla stazione di Polla, con mio fratello, di 6 anni più grande, che fa incetta di pannolini donati dall’esercito. Almeno così mi racconta.

Poi arriva il 15 marzo.

Nasco.

E visto le premesse, considero che festeggiare i 40 anni in piena pandemia, sia quasi normale.Grazie mille per gli auguri, grazie per chi c’è nella mia vita e la rende sublime, grazie ai sogni che coltivo, perché mi fanno sentire vivo.

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M.

La realtà mi appare deformata e io sono disarmata. Da anni vivo così. Senza neanche sapere perché. Senza neanche ricordare da quando. Quando tutto ha avuto inizio, quando una parte di vita, della mia vita, si è staccata dalla vostra normalità. Guardo le mani, le mie mani, le dita che si dissolvono quasi. Si allungano. Stupefacente se non fossero le mie mani e se non fossi sveglia. Non dormo, anche se spesso mi viene voglia di farlo per sempre. Quando mi assale l’ansia, la paura, quando nella mia mente tornano quei maledetti fantasmi. La vita si dissolve, la realtà davanti ai miei occhi si distorce. Ho voglia di scappare, le mie gambe non rispondono. Faccio cose che non vorrei. Faccio cose che neanche ricordo. E sono sicuro di non averle fatte. Sono stanca di questa vita ma non della vita, ma il vortice mi trascina, sempre più lontano e sempre più senza controllo. Lo vedo come mi guardano, come mi guardate anche se ora piangete. La corrente da tempo mi ha trascinato lontano, sempre più ai margini. Della società. Della vita. Come dite voi: borderline? Siamo in tanti qui, e di là tanti volti sentono la nostra presenza e per questo si girano dall’altra parte. Ma vi capisco, forse farei la stessa cosa al posto vostro. Ora non ci sono più, sono caduta dal bordo. Non ho trovato la pace nella quiete dove mi avete chiuso. Dove sono stata trattata come mi trattavano fuori da quelle mura. E ne sono uscita, finalmente, solo per non tornarci più. La vita si è accanita ancora con me, ci mancava il virus. La corrente mi ha trascinato ancora una volta. Ma stavolta non la resisto. Mi faccio trascinare. E mi addormento, per sempre.

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Altra velocità

Il Vallo di Diano si sgretola. Giorno dopo giorno. Lentamente.

Velocemente i giovani lasciano le proprie terre, le proprie famiglie. Lentamente si spengono gli ultimi anziani, lasciando un deserto sotto i piedi. Economico e di voti. Di sentimenti e di lavoro. Velocemente hanno tolto il Tribunale, tanto la Giustizia pur se poi va lenta nella terra degli Ultimi poco importa. Lentamente, quasi con sadismo da torturatori, l’ospedale tende a morire.


E’ un’altra velocità di cui ha bisogno un territorio di periferia. Un’altra velocità di pensiero, di solidarietà, di non piegarsi alle logiche dell’abbandono. L’Alta – senza “r” – Velocità al di là del progetto e della – per ora – non prevista fermata (sulla quale magari concentrarsi su eventuali lotte) ha ridato entusiasmo a 60mila persona. Ma non per il progetto in sé. Non perché una treno a tutta velocità possa far tornare improvvisamente il commercio a Trinità di Sala Consilina, il Tribunale, il Carcere, la scuola di infermieri a Sant’Arsenio e Polla (con un sussulto al mercato degli affitti), gli oltre mille badge all’ospedale, i reparti scomparsi, e via dicendo, ma perché ha fatto sentire a 60mila orfani la voce di una famiglia.


“Oh cazzo, si sono ricordati di noi. Esistiamo”. Ora spiegare che Rfi non sa dove sia il Vallo di Diano, tranne che per quella spina sotto il piede che è la Sicignano-Lagonegro, non è il caso, perché sarebbe come raccontare a un bambino, il 23 dicembre, che Babbo Natale non esiste. (E ovviamente, se ci credi, esiste).

Ma un semplice interesse verso il territorio ha ridato voglia di sorridere al sole che albeggia, al monte che incornicia il territorio. Ben inteso, un messaggio di speranza, che dovrebbe essere seguito da un libro di cose da fare. Di opportunità di lavoro (in bianco e pagato il giusto) da offrire, di favoritismi da evitare, di possibilità di puntare semplicemente su stessi.
Ecco il Vallo di Diano ha bisogno di un’Altra Velocità, di capire che un altro mondo è possibile, che la Politica sappia essere per una volta lungimirante, e che sappia coltivare quell’entusiasmo che è ben altra cosa rispetto a promesse populiste.


Rispetto a tante persone che esprimono opinioni su presunti dati certi – magari surfando su onde politiche o amicali – non so cosa accadrà, credo che l’Alta velocità con fermata sarebbe un’opportunità ma non la soluzione affinché il Vallo di Diano muoia più velocemente di quanto sta facendo.


Ecco dobbiamo capire quale sia la velocità del Vallo, capire che marcia ingranare e non sperare solo che un fischio di un capostazione possa svegliare il mondo che ci circonda. Certo è che sentirsi “nominati come popolo valdianese” ha dato un pizzico di voglia di sorridere all’alba anche a me.

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La storia di Libera (il nome è di fantasia) e di come è venuta alla Luce

La porta di ferro si apre all’improvviso, una luce intensa e afosa penetra nella stanza senza finestre, la polvere si alza in uno sbuffo che scompare subito. La stanza buia fino a quel momento si palesa per un solo momento. Il sole non riscalda l’umidità stagnante della dimora di pietre e fango. La puzza di stagno resta viva. Corre sulla pareti e termina sulla pelle. Le ombre di non si sa quanti uomini, tutti vestiti uguali, rompono quel fascio accecante in un attimo fugace. La porta si richiude con stridente calma. Cala l’oscurità. Lei è seduta in un angolo alla destra della porta, le pareti ai suoi fianchi. Unica, inutile e vacua protezione. Si stringe a sé portandosi le ginocchia al petto. Un uovo, sembra un uovo. Un uovo che uomini senza cuore, senz’animo distruggono. Fagocitano. Ma con lei non ci riescono. Non le distruggono il cuore, non l’anima. Lei il cuore ce l’ha e batte forte, più forte di quell’odio di quegli uomini privi di scrupoli.

La porta di ferro si riapre, stavolta lei corre verso la luce. Deve fuggire, non può tornare nella sua casa, nel villaggio maghrebino dal quale è partita per lavorare trovando l’Odio ad attenderla, non può farlo per quell’altro cuore che ora batte dentro di sé. Aveva tentato di eliminare entrambi i soffi dell’anima, ma quell’alito di vita è stato più forte della debolezza e della paura. Forse un’entità superiore ha voluto così. E allora non resta che fuggire, andare verso quella luce che ora si tinge di azzurro. L’azzurro del mare, di una barca scassata. Un azzurro che sa di puzzo di gasolio. Le urla di scafisti ben pagati e poco gentili invitano, anzi ordinano, di salire su mezzi che sono poco più di zattere. Lei tocca la sua pancia, la carezza, con un gesto lento e affettuoso circumnaviga l’ombelico. “Andiamo a scoprire la luce. Quella vera”. Sussurra con Amore.

Le onde arrivano all’improvviso, schiaffeggiano la barca. Le decine di persone a bordo, occhi stanchi e impauriti, donne e uomini con cicatrici evidenti e nell’anima, ballano una danza di paura. Una danza comandata dal Mediterraneo che quando si mette sa essere atroce. Tuttavia a un certo punto decide che può bastare così e gli occhi dei passeggeri puntano verso la prua, perché la speranza si mostra nella sua concretezza: quella della terra in vista all’orizzonte. Lei carezza di nuovo il suo ventre, dall’interno la risposta è un calcio delicato. Forse di giubilo.

Siracusa è già di per sé divina, lo è ancor di più per chi ritrova la gioia di vivere. Dura poco, perché è solo un punto di passaggio, ma la luce sicula stavolta riscalda davvero, un sole settembrino dà il benvenuto in Italia. Due giorni dopo saranno gli occhi pieni di amore delle operatrici della casa di Miriam, a San Pietro al Tanagro, a emanare calore umano per Lei e quell’altro cuore, quello che batte spavaldo contro il seme dell’Odio. Lei con i suoi trent’anni di età, su per giù, con la sua esperienza di vita, con le paure e le speranze, racconta tutto. La stanza, gli uomini senza cuore, la voglia di non proseguire, l’Amore che trionfa, o almeno spera trionfi. Le operatrici raccolgono, consigliano, si muovono. Per la commozione c’è solo spazio nei momenti intimi. Non si possono far vedere fragili.

Quell’altro cuore cresce protetto. Lei lo carezza, lui risponde calciando. Si muove, si muovono. Altri ostacoli però li attendono. Gli uomini, le persone, anzi, non sempre sanno essere luce. Non sempre sanno abbracciare con il sorriso e coccolare con la voce. Anche se indossano camici bianchi. Ma di fronte a quello passato in Libia, questi atteggiamenti sono virgole, hanno il tempo di un pausa ma poi si va avanti, dimenticandosene. E poi ci sono anche camici bianchi gentili che, un po’ per destino, po’ perché il mondo è pieno di angeli custodi, si svelano proprio a pochi giorni dalla scadenza dei nove mesi. La luce è vicina. Il secondo cuore vuole battere da solo.

E comincia a farlo in una notte di neve. Fredda fuori da quella stanza ma non tra le mura dell’ospedale che si riscalda quando quel cuore comincia a battere forte nel petto della piccola Hura (il nome è di fantasia), un cucciolo di donna che ha battuto l’Odio ben prima di venire al mondo, un cucciolo di donna che emana Luce. Quella che riscalda, che fa sciogliere i fiocchi che si poggiano sulle finestre, quella che fa piangere, stavolta di gioia, la sua mamma. Il primo vagito cancella le violenze, le cattiverie, le ombre della morte, e trasforma la Vita in qualcosa di meraviglioso.

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Il paziente salvatore

Paziente?

Sì sono io.

Nel senso di persona che sa aspettare senza ansie. Anzi come leggo sul vocabolario: “Abitualmente od occasionalmente disposto a moderazione, tolleranza o rassegnata sopportazione”.

Allora non sono io. O meglio lo sono, ma raramente ma sono un altro tipo di paziente.

E perché quando ho chiesto se è paziente ha risposto subito di sì?

Perché paziente lo sono, me lo hanno detto spesso ultimamente. Più volte ma non nel senso che intende lei.

Lei è un giornalista, un esperto di comunicazione ma devo dirle, caro mio, che non si esprime bene in italiano e non sa rispondere a semplici domande. Ripeto. Paziente?

Paziente al quadrato dire. Forse al cubo.

Mi sembra più pieno di sé che paziente. Presuntuoso oserei dire.

Forse è come dice lei, ma nell’ultimo anno sono un paziente paziente più che un giornalista giornalista.

Mi fa ridere lei, se non parlassimo di cose serie, si nasconde sotto un cappello di lana pesante, una sciarpa anonima e una mascherina e quello sguardo un po’ fisso che si perde nel vuoto. Dica la verità, le piace tirarsela.

Mi scusi se sono cosi, o se le do questa impressione. Mi levo il cappello se la fa felice. Anche se non potrei, fa freddo e devo difendermi. La mascherina la usavo già qualche giorno prima di questo pandemonio.

Ah, anche il timido fa. Magari ipocondriaco. E poi classico giornalista dallo sguardo finto stanco. So bene che la sua categoria non lavora poi tanto. Come diceva quello là “meglio giornalista che lavorare?”

È un luogo comune ma se le piace crederlo, glielo lascio fare volentieri. Sul fatto di essere ipocondriaco, beh, quello un po’, ma a ragione direi.

Si dà anche ragione da solo. Mi fa sorridere. Ma un sorriso d’ira, sa cosa vuol dire?

L’ira l’ho abbandonata da un po’, non fa parte del mio carattere.

Giustamente, si sente superiore a me e me lo fa notare con un po’ di finta superficialità. Ma va bene, la sto capendo. Ah, è anche rasato, tipico atteggiamento da giornalista di Libero, un po’ naif, un po’ nazist.

In realtà i capelli li perdevo da anni, poi, poi gli ultimi che sono rimasti mi hanno abbandonato. Spero ricrescano.

Non credo e comunque se li raserà, conosco i tipi come lei. Torniamo al termine paziente? Questo è un sondaggio e lei non risponde.

Paziente, nel 2020, lo sono almeno due volte. Forse tre. Al cubo le dicevo.

Esagerato. Davvero una persona esagerata. Un mitomane.

Abbi pazienza lei, ora e mi ascolti: ho vissuto una malattia che mi ha debilitato, mi ha fatto conoscere i dolori della chemio, l’ho affrontata con paura ma senza perdere il coraggio e la lucidità, poi è arrivato il Covid e ho dovuto affrontare la paura del virus mentre viaggiavo per combattere il tumore e poi il virus mi ha preso lo stesso e allora ho avuto nello stesso momento, dentro di me, Covid e tumore. Credo si siano presi paura uno dell’altro, o almeno lo spero, cosi sono fuggiti entrambi. Di certo io ho avuto paura di loro ma non sono scappato. Sono stato paziente, sì, due volte paziente. O come dicono gli acculturati degente. E ora mi piace raccontarlo con il sorriso, non di ira, ma di speranza. Il sorriso alla vita. Ho soddisfatto la sua domanda?

Suppongo di sì. Scusi se le ho fatto perdere la pazienza.

No, macché, resto paziente. Ma spero solo nel suo modo di intenderlo.

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L’abbraccio dimenticato

Le braccia si allargano. All’improvviso. Un gesto che non è più naturale. Parallele al terreno, dritte senza remore, le braccia sembrano sprigionare energia pura. Le mani si aprono come un’esplosione. Le dita tendono all’infinito. Si staccano l’una dall’altra quasi come se volessero permettere di spiccare il volo. La terra pare vibrare sotto i piedi. La bocca accompagna le braccia. Si allarga anch’essa in quello che sembra proprio essere un sorriso. Un largo sorriso. Gli occhi brillano riscoprendo che l’essere umano può anche ridere. Sorridere. Bagnati quasi sfocano la figura di fronte che come in uno specchio ripete gli stessi movimenti. Le braccia si allargano, le mani tendono all’infinito, il sorriso si fa ancora più largo e si avvicina. E poi, poi rieccolo, quel gesto che sembra cancellato dal Tempo e che tanto ci manca. Quel gesto che sta tornando, grazie alla Scienza, al vaccino, alla speranza. Quel gesto che sembrava tanto normale che quasi non ci si faceva caso. Quel gesto che dà vita e che una volta chiamavano: abbraccio.

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Personaggio dell’anno 2020: Luigi de Angelis (e i “camici bianchi” in prima linea)

Luigi de Angelis è primario del reparto di Rianimazione dell’ospedale di Polla. E’ lui, parer mio (unico giudice di questo riconoscimento che per “gioco” porto avanti da quando ho aperto questo blog), il personaggio dell’anno nel sud della provincia di Salerno. Lui, pollese d’adozione e profeta in patria, in rappresentanza di tutto il personale ospedaliero, distrettuale, del sud della provincia di Salerno e ovviamente dell’ospedale valdianese in primis. L’ospedale di Polla – occorre fare questo inciso – è un struttura in bilico in quanto depauperata da tempo nel nome dei tagli, della politica dissoluta, dei favoritismi personali, della malagestione personalizzata ma è – allo stesso tempo – l’azienda (la “fabbrica”) che dà più lavoro al territorio e quindi serve sia alla Salute di 60mila persone che all’Economia.

E si è trovato, l’ospedale di Polla, ad affrontare questa emergenza, come in tutta Italia, con pioggia di casi nella prima e nella seconda ondata, con il ritardo dei rinforzi da chi avrebbe dovuto aiutare invece di far di conto e far di politica. Sono stati fatti errori, qualcuno si è imboscato, qualcun altro anche nell’emergenza ha guardato al suo tornaconto personale, ma ci sono stati donne e uomini che non hanno mollato un centimetro, mai. Affrontato la paura, sostenuto il malato. Che poi si dimentica è l’unico vero fine di un ospedale. Ebbene, per il mio insindacabile pare, Luigi de Angeli, decenni vissuti nell’ospedale, luminare nel suo campo, rianimatore e anestesista che – pur mai apparendo in questi mesi – è stato in prima linea. Non solo un generale che comanda dal ponte di comando (che pur servono e sono fondamentali) ma anche un soldato che indossa elmetto e divisa in trincea. Lui e con lui tanti altri come lui in tutta Italia. E nel mondo ovviamente.

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La storia del bambino che non poteva giocare e dello spirito del Natale

Gli occhi per viaggiare. L’unico modo, forse l’unico biglietto, per andare verso un mondo diverso. Migliore. L’unico modo per rompere quelle barriere che lo circondano sin dal suo primo vagito. E che lo circonderanno per sempre.

Gli occhi per viaggiare, per parlare, per piangere, per ridere. E soprattutto per giocare. I bambini non possono non giocare. E’ un diritto inalienabile. Ma lui, il piccolo protagonista di questa storia, non poteva giocare, ingabbiato da sbarre invisibili ma indistruttibili. Solo Babbo Natale, o il suo spirito, avrebbe potuto riuscire nel regalo più bello.

Siamo nel 2019. Lui, il protagonista, un bambino tutto speciale, vive circondato dall’amore della famiglia, circondato dalle difficoltà di una vita in gabbia, una gabbia trasparente ma insormontabile, circondato da tubicini che lo fanno continuare a vivere, circondato, soprattutto, da una voglia estrema di giocare. Forse la letterina a Babbo Natale la scrive con la mente, forse ci pensa sua mamma. Forse è il destino a metterci lo zampino. O semplicemente il web, una delle nuove strade usate da Santa Claus per conoscere i bisogni dei bambini. La sua storia, la storia del nostro bambino, il suo desiderio viaggia sull’etere. E c’è solo un modo per rompere quelle sbarre disegnate con materiale che pare indistruttibile: una stanza sensoriale da ideare, costruire, allestire, nella sua casa. Un sogno enorme, soprattutto perché qualcosa del genere ha un costo eccessivo, che neanche le strutture pubbliche spesso possono permetterselo. Ma è l’unico modo. Impossibile.

O forse no.

Bisogna credere a Babbo Natale, al suo spirito, alla sua forza. E bisogna credere anche alle nuove strade che potrebbero percorrere le letterine a lui indirizzate e le piste che traccerà la sua slitta. Qualsiasi forma abbia.

Il desiderio di giocare del nostro piccolo protagonista viaggia a sua insaputa, prima su un aereo che gli permette di volare regalandogli le ali per curarsi in modo opportuno , poi sul web per realizzare un altro bisogno vitale: il gioco. E’ lì, sul web, che un imprenditore di nome Giuseppe, ma che in realtà è un travestimento di Babbo Natale, conosce il desiderio e anche il bisogno del piccolo protagonista. Una stanza che faccia giocare chi è ingabbiato, che faccia viaggiare gli occhi, la mente di quel piccolo. Una stanza magica, pregna di spirito di Natale.

Impossibile. A Natale nulla è impossibile.

Babbo Natale si muove un po’ prima delle feste natalizie del 2019, la sua slitta è in realtà una stupenda auto e le renne sono diventati cavalli rombanti di un motore che scava l’asfalto come fosse neve del Polo nord. Babbo “Giuseppe” Natale si trova di fronte un’impresa complessa. Ma ha due elfi speciali come aiutanti e ha nelle mani la magia del Natale. Non si arrende, non si piega alle difficoltà. Il primo elfo lavora con la mente. Ha capelli che sembrano pettinati con i petardi e fantasia che si perde oltre confine. Il secondo elfo ha mani callose di chi sa lavorarci e creare dal nulla. Loro due e il supporto fondamentale di Santa Claus fanno sì che la stanza magica prenda forma. Giorno dopo giorno.

E Babbo Natale esiste per davvero, perché il 25 dicembre del 2019, appena spunta il sole, quella stanza diventa vita. Vitale. Il nostro piccolo protagonista vede esaudire il suo desiderio. Può giocare. Davvero. La stanza magica è realtà. I suoi occhi, gli occhi del piccolo, viaggiano, giocano. Vivono ancor di più.

Babbo Natale esiste. O meglio il suo spirito esiste e si impadronisce delle persone che hanno il cuore aperto ad accoglierlo.

Giuseppe e i suoi elfi bevono il latte rimasto sotto l’albero, assaporano i biscotti al cioccolato e volano via. Sorridenti. Lasciano Samuele può finalmente giocare.

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D10

Il dio del calcio apparve quasi all’improvviso nel Vallo di Diano, in una fresca serata di circa 35 anni. Era il 1986. Un’illuminazione sulla via del sud, tra le ultime terre della Campania, che portò la gente, tifosi e non solo, a urlare al miracolo, quasi a stracciare le vesti se non fossero preziosamente vestite di maglie azzurre Napoli. O come quelle dei bambini e dei ragazzini: bianche ma con su un numero scritto con un pennarello: “10”.

Non era ancora il tempo delle maglie personalizzate, era il tempo dei numeri e in pochi potevano essere identificati solo grazie alle cifre. Il 7 di Best, il 14 Cruijff. E soprattutto lui: Maradona. Il Dieci. Dio apparve con il suo numero, il 10, i suoi ricci e il suo sorriso. Forse il numero non lo aveva indosso, aveva un giubbino di jeans e una maglietta ma per i suoi fedeli, e per i miscredenti che dovettero ricredersi, il numero era come una stimmate: c’era. Il suo angelo custode in quell’apparizione sul finire degli anni Ottanta fu il suo vecchio capitano, Beppe “Pall e fier” Bruscolotti, all’anagrafe nato a Sassano e nel mondo del calcio nella Pollese di Gerardo Ritorto prima del salto al Sorrento e poi al Napoli. Bruscolotti gli cedette la fascia da capitano per il secondo tricolore, gli cedette la sua terra per una notte magica.

L’apparizione del dio del calcio avvenne in diversi momenti, in un ristorante di Polla, al Margaret, dove pranzò con apostoli, ben più dodici, che lo adoravano. E non c’era alcun Giuda. Anche chi amava Platini cambiò per una notte la sua religione. E poi eccolo apparire nella scuola elementare con tutti i bambini delle elementari di Sala Consilina. Ridere con loro. Giocare con i quarantenni di oggi. Conobbero il dio del calcio in una palestra. E poi il club di Sala Consilina che era intitolato al vice presidente del Napoli, Gallo, originario di Padula, il suo consulente finanziario. Anche dio ha dei conti da tenere in ordine.

Pare apparve anche in altri paesi del Vallo di Diano, a Sassano e non solo. Sarebbe dovuto anche apparire in una manifestazione di piazza ma i fedeli erano talmente tanti che dovettero desistere. C’è anche chi dice di averlo visto palleggiare con San Michele o dribblare Sant’Antonio. Allucinazioni, forse. Follia pura. Anzi no, amore. Vero, puro. Oltre i colori, oltre la maglia. Le strade erano stracolme, i locali pure. Le lacrime d’emozioni di allora, ora sono quelle di tristezze nel Vallo di Diano. E ovunque. Perché quell’apparizione è stata raccontata per 40 anni da queste parti. Ci sono le verità, le fantasie, le storie verosimili. E ci sono le leggende su quella visita di Maradona e del suo fido angelo Bruscolotti che fece sentire il Vallo di Diano, almeno per una volta, paradiso. Aveva appena ospitato il dio del calcio. E se ne sarebbe parlato per decenni.

Forse per sempre.

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La danza di Federica

In punta di piedi. Un gesto veloce delle caviglie, uno scatto di muscoli armonioso. Delicato e potente allo stesso tempo. Un passo danzato, un sorriso accennato, due occhi che sprigionano energia e passione. Che cercano quelli dei suoi cari per rassicurarli. Ancora una volta. Federica era per gli altri, si donava agli altri. Li capiva. Viveva per chi la circondava.

Balla Federica, un salto maestoso, gambe e braccia parallele. Gli applausi sono tutti per lei. Come le lacrime che cadono all’alba, quando ha cominciato a danzare in un altro Cielo. Ma Federica, che a 20 anni aveva sogni e speranze, paure e certezze, non verrà dimenticata. Non lo sarà per quello che ha dato a chi ha avuto l’onore di conoscerla e non lo sarà per chi l’ha conosciuta in questi pochi giorni. Perché in pochi maledetti giorni è diventata un simbolo. Suo malgrado. Perché anche dal letto dell’ospedale ha continuato a sprigionare quell’energia che aveva la sorgente dalla sua anima.

Ha fatto vincere, lei più di ogni altro probabilmente, una gara di solidarietà al suo territorio. Ha unito paesi e cancellato confini. Ha reso amici gli estranei, ha fatto sussultare d’orgoglio chi ha potuto donare il proprio sangue. Ha fatto capire, in poche ore, che donare è uno dei gesti più nobili che ci possa essere.

Ha donato, ella stessa, una speranza e dispensato bei pensieri. Ha fatto un miracolo, purtroppo nella sua sofferenza.

Ecco perché Federica non può e non si potrà dimenticare. Ecco perché ora balla con il sorriso dolce e delicato anche in un altro Cielo. I suoi occhi rivolti ai suoi cari, oggi come ieri. Gli applausi sono tutti per lei. Come le lacrime.

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Scrivi una cosa bella

Scrivi una cosa bella. Sembra facile. Mi verrebbe da scrivere di un ricordo d’infanzia. Che ne so, la pizza da Zi’ Salvatore, la margherita perché non c’era tanta alternativa e la coca cola al piano di sotto con tre amichetti, sempre gli stessi, Paolo, Nicola, Giuseppe, perché di sopra andavano le famiglie. Ma non è una cosa bella, è nostalgica. E allora forse il primo bacio, a 14 anni, ma quando l’ho ricordato a lei, dopo anni e vite oramai lontane, lei manco se lo ricordava. Manco questo è una cosa bella, beh devo ammetterlo. Una cosa bella per superare il momento mi si chiede e mi chiedo. I mondiali del 2006, quelli da scrivere sono una cosa bella, lontana 14 anni, con errori personali, la vidi con persone estranee a Perugia e abbracciai me stesso, pure se avevo amici poco lontani. Allora Grosso diventa un esempio di un calcio di rigore da lui segnato, da me sbagliato. Ma sta cosa bella la devo trovare. Il Capodanno del 2003 o forse del 2004, quando ho iniziata, spero, a conquistarla, ecco questa è bella. Devo ringraziare più Rino Gaetano che mi ha donato un canale di comunicazione che ci unisse più che le mie doti comunicative. Ecco dovrei scrivere di questo, ma questo preferisco viverlo più che scriverlo. E allora il 2 ottobre 2000, Anna sul pullman con me, seduta al mio fianco per la stessa avventura e mamma che fingeva di non piangere sotto, prima della partenza. L’università. Bel ricordo, ma anche questo malinconico. A 18 anni capii veramente quanto i miei genitori tenevano a me e quanto io a loro. Sono sempre stato un ritardatario. Anche di anni. Allora la doppietta, unica e sola sul campo di Monte San Giacomo. Ma posso essere felice da calciatore estremamente scadente e panchinaro nel Dna anche in Terza categoria? Un sorriso però me lo strappa. Scrivi una cosa bella, il primo film al Cinema, Rambo, a Polla. Poi guardo quel cinema sconfitto dal tempo, e non è una cosa bellissima, ma un affettuoso ricordo. No no, racconto delle ranocchie che mi accompagnavano prima di dormire nelle estati pollesi, mi sembra da scadente film americano. Ma quelle ranocchie ancora mi fanno stare bene. Un’impresa difficile scrivere una cosa bella: il primo articolo, nel 2002, una corsa podistica, chiesi le classifiche e gli organizzatori mi dissero che le avrei letto il giorno dopo sul giornale, e chi glielo spiega che il giornale sarei stato io. Guarda tu in che groviglio dovevo cacciarmi per non scrivere di covid e di sei mesi difficili per tutti e per rispondere a un invito: “Scrivi una cosa bella”. Forse, forse…forse non so scrivere una cosa bella, ora, ma ho scritto della mia vita, che potrebbe essere la vita di chiunque, con esperienze, emozioni e paure. Ma comunque da vivere, da rivivere e alla quale regalare nuovi giorni per rispetto di chi non c’è più e di chi ora rischia di perderla. Vivere e rispettarla, ovvero viverla ora con l’attenzione per l’altrui vita e poter un giorno poterla viverla senza questa paura che ci circonda. Non so se è una cosa bella, ma è la vita, la nostra vita e comunque merita di essere scritta.

*foto bella di Williams Antonio Lamattina.

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Il medioevo ritrovato e smarrito: San Severino di Centola

Un gradino dopo l’altro guardando sempre verso l’alto. Verso la meta. Verso un sentore di romanticismo che si auspica di trovare al termine della fatica. Il romanticismo del tempo perduto e da riscoprire, di un luogo che visto da laggiù, dalla strada che porta al mare, ha sempre affascinato. Incuriosito. San Severino di Centola padroneggia lo sguardo di chi va verso Palinuro o Marina di Camerota. E’ sempre stato un appuntamento rimandato per chi fa il turista del mare della domenica, di quelli che la mattina guardano in alto e dicono: “Alla prima occasione veniamo a vederlo quel paese”.

La prima occasione – colpa mia per questo ritardo – è arrivata dopo anni di viaggio domenicale verso il mare. Arrivarci, a San Severino di Centola, è semplice. Molto più facile di come da giù immaginavo. Poche curve, si parcheggia e ci si può incamminare lungo la scalinata. L’ingresso, la “porta” verso le scale e i tanti gradini che attendono il viaggiatore, non è proprio di quelli che possono definirsi medievali. Non è un varco nel Tempo, come potrebbe essere quello che porta verso un viaggio anche “soltanto” temporale, ma almeno si nota bene. E considerando altri luoghi “simili” visitati è almeno un buon inizio.

Poi c’è l’affascinante lunga scalinata. Affascinante perché ogni gradino fa aumentare l’aspettativa, il desiderio di scoprire ciò che non si conosce. La parte del castello, dove porterebbe il primo “bivio” è chiusa per lavori. Ben vengano per riconsegnare ciò che era. Ben venga il ricreare quello che era per farlo tornare Presente. E allora non resta che visitare l’altro lato, quello non soggetto a lavori. Da tempo purtroppo.

Il viaggio nel medioevo è affascinante, i luoghi che raccontano il proprio vissuto portano consapevolezza e suggestione. Resti di una vita che fu, di avi, di amori vissuti tra vicoli e scorci a strapiombo. Magari un primo bacio dato alla luce di luna piena, con un panorama di stelle e di vastità di fronte. Questo romanticismo, tra i ruderi di San Severino l’ho provato. Così come camminare nell’unica area rimessa a posta, quella che porta alla chiesa madre. Ma il resto, però, è cornice infausta. Tra erba, ruggine, scale abbandonate, insegne di un presepe vivente che sarà o che è stato e che ha lasciato troppi segni nel già segnato paese. Il Tempo è vissuto. Fin troppo.

Resta però il fascino di un paesaggio da scoprire e riscoprire, un paesaggio che vorrò visitare di nuovo, magari a lavori ultimati e non solo dell’area del castello. San Severino è stato un appuntamento in ritardo che sono felice di aver portato a termine. Ma in ritardo è anche chi dovrebbe averne più attenzione. E allora spero che – come ho fatto io – quel ritardo sarà colmato e si possa tornare a parlare e scrivere solo della possibile storia di quel bacio al chiaro di luna in uno splendido scorcio di un paese medievale.

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Trovare dio da un terrazzo: Pianoro di Ciolandrea

Questa storia può cominciare solo da un punto, da un momento, da un attimo: dall’esplosione di emozioni. Dalla rivelazione. Da quell’attimo in cui colori, sensazioni, odori, palpiti, rumori e silenzi deflagrano. Il momento in cui si guarda l’essenza del mondo. Il momento in cui ci si affaccia sul terrazzo da dove si può ammirare il punto esatto nel quale mare, terra e cielo diventano un tutt’uno. Diventano dio anche se sei ateo. È Pianoro di Ciolandrea, il balcone, il terrazzo, anzi, di San Giovanni a Piro su quattro regioni d’Italia.

È un tuffo per lo sguardo. Un tuffo volteggiante, con braccia aperte a mo’ di croce, la testa verso l’alto e il vento nei capelli. Un tuffo che fisicamente non fai, ma che senti dentro di te. Senti il vento. Lo senti appena gli occhi si gettano oltre l’orizzonte: la sensazione è difficile da spiegare, ma forse per questo straordinariamente stupenda.

L’attimo che vale il tutto, il viaggio, le curve, le poche indicazioni stradali, l’assenza di parcheggi o altre migliorie che arriveranno. Si spera

L’attimo si incastona nella mente, nel cuore. Un’esplosione, una deflagrazione. I colori che riempiono lo sguardo, le tonalità di azzurro, di verde, di bianco, di marrone, che pian piano si collocano nei loro spazi naturali. Nel mare, nel cielo, nella terra, negli scogli, nelle scie schiumose delle barche, nei fili di nuvole.

La fortuna di trovare una giornata limpida, anche se d’ottobre, aiuta certo. Anzi rafforza ancor di più la meraviglia. Fa caldo ma non eccessivamente, non c’è nessuna voce che rompa il momento. Le nuvole grigie sono alle spalle e di fronte ecco il paradiso. Se mai dovesse esistere. Le tonalità di azzurro conquistano il mare, dalla costa fino all’orizzonte, dove quasi in modo impercettibile si trasformano in celeste. Un bacio delicato quanto passionale quello tra mare e cielo. Le nuvole bianche tagliano il cielo, lo rendono simile a un quadro che magari avrebbe potuto disegnare Maria Dorotea di Sia, la giovane artista di San Giovanni a Piro scomparsa troppo presto e la casa Stella a lei dedicata dai genitori, non è molto lontana da questo luogo incantato. Per un attimo l’ho immaginata sulla panchine sul prato con vista mare raccogliere ispirazione. Incantesimo di un luogo magico, divino. La terra che fa da cornice ma che è al tempo stesso opera d’arte.

In lontananza Stromboli, la Sicilia, poi risalendo con lo sguardo lungo la costa ecco la Calabria, il Cristo di Maratea, la Basilicata, la Campania, il Sud che si mostra meraviglioso, si mostra per quello che è, che dovrebbe sempre essere. È un attimo, ma una deflagrazione che nel mio sguardo durerà una vita.

È Pianoro di Ciolandrea

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Alle fiera della scuola

La scuola cosa è? O almeno cosa dovrebbe essere?

Una serie di domande, che dopo il video dell’aggressione di un professore allo studente, dei giorni scorsi, tornano attuali laddove fossero mai andate fuorimoda.

E’ diventata, la scuola (o meglio il sistema scuola), anche se forse lo è sempre stata, ma ora ancor di più, anche luogo di interesse e di interessi, di conflitti di interesse. Si potrebbe anche dire. Nel Vallo di Diano – ma credo un po’ ovunque – con le varie riforme, la scuola è diventato anche luogo di “ricerca dei clienti”. Laddove i clienti sono gli studenti e la ricerca è la promozione della propria scuola. E si badi bene non parlo del solo istituto scolastico in questione, ma di tutti gli istituti scolastici. Un concetto di commercio che stride con l’istruzione, con il formare gli uomini e le donne del futuro. O che forse li prepara al mondo che sarà: sempre più spietato. Il “commercio scolastico” ha creato dei veri e propri mostri. Lotte interne ed esterne, scintille tra comuni e amministratori, gestori delle scuole che sono diventati negozianti con il rischio di superare il confine. Lo dimostrano le liti tra scuole, tra dirigenti scolastici, tra politici per questa o quella scuola. E come ogni promozione, anche come ogni spot si evidenzia il meglio del proprio prodotto e se si può si fa notare il peggio dell’altro. Ecco la scuola sembra essere diventato un prodotto più che un luogo di crescita, un prodotto da vendere, tutelare e promuovere. Marketing al post dell’istruzione. Un luogo da vendere come novelli Giorgio Mastrota o Wanda Marchi, con offerte strabilianti ma che più che altro accecano. Da tutelare a ogni costo, anche rischiando di diventare luogo che insegni l’omertà. Perché sta passando anche questo messaggio: dire ciò che accade nella scuola è sbagliato. “La prima regola della Scuola, non parlare mai della Scuola”. O almeno delle magagne che accadono tra le mura scolastiche. I panni sporchi si lavano in famiglia, ma la scuola non è famiglia. E’ comunità.

Io adoro parlare delle belle cose che si fanno a scuola e il “Pomponio Leto” (lo prendo a esempio perché è il luogo del video) è una miniera di belle cose. Ma non si può solo parlare del bello di ogni scuola. O di ogni ambito.

In merito al video, al di là del cervellotico sdoganamento della violenza tra centinaia di commentatori social (e non solo social) del video (personalmente non credo che con la violenza si insegni alcunché), altre accuse sono state rivolte a chi ha girato il video stesso. Qualcuno ha sostenuto sia una trappola. Non credo, ma se pur fosse, se qualcuno ha ideato la trappola è perché c’era qualcosa o qualcuno individuato come “nemico” da catturare. E se il nemico viene visto un professore, qualcosa non va alla base. Giusto, i cellulari non devono essere portati in classe. Ci possono essere provvedimenti in tal senso e le regole vanno rispettate. Allo stesso tempo, però, ho sempre creduto che ognuno si difende con le risorse che ha: se gli studenti si devono difendere a scuola (e questa frase mi inorridisce perché uno studente a scuola si deve sentire protetto) con il cellulare, allora ben venga ciò che hanno girato. Allo stesso tempo, ben vengano provvedimenti e sanzioni verso studenti che portavano avanti l’atavica pratica del bullismo (a miei tempi si chiamava nonnismo) o che non rispettino i ruoli. Anche punire gli studenti sembra essere passato di moda per evitare che si sappia che la scuola sia severa, sempre nel nome della vendita del prodotto.

Senza quel video si sarebbe saputo dell’aggressione? Sarebbero stati creduti? Non è mia intenzione ragionare per categoria, ci sono studenti che sbagliano e ci sono professori che eccellono, ma l’andazzo pare sempre andare contro i primi. Da sempre si punta sui giovani ma se poi fanno cose che agli adulti non piacciono sono i primi a essere penalizzati. Alla fine l’impressione è che i giovani siano solo ottimi argomenti per riempirsi la bocca di buoni propositi e gli studenti clienti di un prodotto che è diventata la scuola dove gravitano interessi dei più grandi.

Tristi commercianti dell’istruzione.

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D(‘)istruzione

Questa è la storia di un minuscolo segno nella storia. Forse insignificante. Forse no.

Una mattina, tra quattro mura e due finestre, subito dopo un suono tanto improvviso quanto atteso due occhi si concentrarono sull’immagine che avevano davanti.

Era una figura minuta, gli occhiali, tondi, sulla punta del naso e lo sguardo puntato verso il centro delle lenti. La figura minuta era seduta, la testa inclinata davanti di poco, quel poco per scorrere una lista di nomi. Quel registro era una sentenza mattutina come l’ordine perentorio che quel figurino lanciava ogni mattina, che fosse primavera o pieno inverno: “Cambiate l’aria, aprite tutto”. Tutti ascoltavano con timore e preferivano il gelo al diniego. Compresi quei due occhi che lo fissavano ogni mattina quando fuggivano da casa ancora assonnati. L’altro ordine era: “Quando non ci sono io, c’è una linea gialla immaginaria ma voi la vedete, è davanti alla porta. Chi la supera è finito”. Qualcuno a dir la verità l’aveva superata. Divenne sempre il primo. A essere interrogato. Anche in gita. Quel registro era una sentenza ogni mattina. Il figuro, a volte con occhio losco, a volte con un sorriso bonario, era capace di far tremare quei ragazzi così spavaldi dietro ai banchi e tra i compagni. Ma era capace anche di insegnare. E non solo nella sua materia ma nella scuola della vita. Quei due occhi, così come gli altri, lo avevano percepito. Praticamente da sempre. Nonostante le rigide regole e la pioggia di insufficienze. Lo capirono ancor di più quando durante una gita quel figuro minuto si mise tra loro e un esagitato autista. Per difenderli. Proprio lui che li castigava ogni volta possibile.

Quel minuto figuro che aveva personalità e carattere, mezzi rozzi e intelligenza fine. È stato un esempio più che un professore. È stato un piccolo segno nella mia vita. Un apostrofo.

Lo stesso che riesce trasformare il desiderio di distruzione in voglia d’istruzione.

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I decreti dell’odio e la vera integrazione

Con la cancellazione dei decreti Salvini (e Conte I) si eliminano l’odio legalizzato e una legge che non aveva testa né coda lasciando, paradossalmente, più clandestini sul territorio italiano e meno possibilità di integrazione. Empiricamente era una legge, che al di là delle valutazioni personali, era monca: a un certo punto non diceva più che cosa si doveva fare con il richiedente ma vivere in un limbo. Pericoloso. Al di là delle disamine sui decreti (che furono), sulle quali non credo di avere le capacità, mi piace però l’idea che cambiare quei decreti possa contribuire a una mutazione di mentalità, consapevole che si tratta di un percorso tortuoso e pieno di ostacoli e forse senza un traguardo univoco.

E allora, proprio questa foto, di tre anni, forse è un segno del destino di come un altro mondo, anche nell’integrazione, è difficile ma possibile.Era una sera d’autonno, fredda. Con l’Insteia, squadra di calcio a 5 di Polla, ci stavamo allenando nel campetto del paese. Un campetto che è luogo di possibile integrazione perché chi vive tra Sprar e centri vari se usato ancora meglio. Lo sport unisce. Un linguaggio comune anche per chi parla lingue diverse. Da favorire. Giuseppe Metitieri presidente della squadra (amatorialissima), ben prima di questa foto aveva deciso di avere un richiedente asilo nella società. Una splendida idea. Quell’ottobre del 2017 ci stiamo allenando e lasciamo gli spogliatoi aperti, tanto non è mai accaduto nulla. E invece alla fine dell’allenamento la brutta sorpresa, manca un cellulare a uno di noi. Rubato. Cerchiamo di capire cosa possa essere accaduto e riusciamo tra tecnologia e contatti personali a individuare chi possa essere stato l’autore del furto. Un ospite minorenne di un locale centro di accoglienza. Due sono le strade davanti a noi, la denuncia o il contatto. Scegliamo la seconda, contattiamo Giusy Salerno, responsabile di uno dei centri di accoglienza pollesi per parlare con il 15enne autore del furto. Lui, il ragazzo ha già capito di aver sbagliato e chiede alla sua responsabile e a Pape Gora Tall, il tutor, di poter chiedere scusa. Arriviamo alla sera della foto. Il ragazzo con alcuni suoi amici arriva al campo di calcetto, noi ci stiamo allenando, entra con gli occhi bassi e il cellulare in mano. Lo consegna al proprietario e chiede scusa con un discorso breve, toccante. Qualcuno ha gli occhi lucidi. E chiunque era lì, in quel campetto quella sera, chiunque è in questa foto oscurata, è cresciuto, è integrato. Non sbagliare mai è difficile, sbagliare e chiudere scusa è arduo. L’integrazione, vera, fuori dai decreti populisti, passa anche da momenti come questo.

Nota a margine: quel ragazzo ora è maggiorenne, sta bene, non ha problemi con la legge e il cellulare lo ha comprato lavorando regolarmente.

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